di Alice Valerio

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Caro papà – o forse dovrei chiamarti babbo come voleva la mamma- ti scrivo questa lettera ma non so se la leggerai. Queste non sono le parole che una “figlia femmina” come mi hai sempre definita è solita scrivere ad un padre. Fin da piccola ti ho sempre inseguito, cercato, rincorso, anche quelle poche volte che mi venivi a prendere alla scuola materna. Ricordo ancora quel cappottino di lana marrone, tutto drappeggiato, con un pellicciotto dello stesso colore, mi sentivo bellissima quel giorno, quasi perfetta per l’occasione, ma mentre ti venivo incontro caddi a terra e allora mi misi a piangere, non tanto perché mi sbucciai le ginocchia, ma perché quella caduta aveva rovinato un momento, che sarebbe stato solo nostro. Nel corso degli anni ti ho immaginato potente, forte, coraggioso: negli uomini che incontravo era te che cercavo, la tua manualità, la tua capacità di fare, il tuo spirito intraprendente. Perché era così che ti vedevo, o meglio era così che avresti voluto che io ti vedessi. Infatti non facevi altro che raccontarmi del tuo passato da emigrante, del periodo in Germania, quando riuscisti a conquistarti l’attestato di meccanico motorista, il tuo arrivo a Roma e il lavoro alla Peugeot, me lo raccontavi ogni volta che passavamo davanti allo stabilimento. Caro papà ti vedevo come un grande esempio da seguire: come l’uomo che dal paese era riuscito a fare la scalata verso il nord. Non sai quanto ti apprezzavo per questo. Soprattutto quando a venirci a trovare erano i parenti del sud, anche qui riuscivi a improvvisarti Cicerone. Li portavi in giro per la città: al Colosseo, dove gli raccontavi la “tua” storia sui Romani. Dentro di me sapevo bene che qualcosa la enfatizzavi, ma non faceva nulla, pensavo, era come te che volevo essere, tra i miei sogni ad occhi aperti mi vedevo guida turistica, oppure studentessa di archeologia. Con il tempo mi sono resa conto che ti avevo idealizzato: le tue belle parole per apparire un grande uomo, le simulazioni da perfetto padre di famiglia ad uso dei parenti che venivano in gita a Roma, la mancanza di un dialogo sentito con noi figli, mi hanno aperto gli occhi. Non ricordo mai di avere avuto un abbraccio, un bacio, una carezza, una pacca sulla spalla. Ogni tanto ci provavi ma ti riusciva male. A Natale o a Pasqua al massimo ci davi una stretta di mano per farci gli auguri. Eppure non è questo quello che mi ha ferita. E’ stato il non voler considerare che vicino avevi una figlia con la sua personalità, la sua individualità, il suo essere: è questo quello che ancora non accetto, non accetto che nel fare di tutto per dimostrarti di essere una persona capace, di andare oltre le ferite di una famiglia infelice, la nostra, tu mi abbia sempre considerato solo nel ruolo della “figlia femmina” della nostra famiglia, niente di più. Caro papà, nonostante io abbia fatto l’impossibile per farmi notare da te, non ti sei mai voltato a guardarmi. Ti sei sempre girato dall’altra parte per occuparti solo ed esclusivamente di quello che pensava le gente: di come far credere agli altri che la nostra fosse una famiglia modello.
Caro papà oggi che la nostra famiglia si è disintegrata e ogni suo pezzo è rimasto isolato nel suo dolore, io non ti verrò a cercare.
Del resto i nostri indici non si sono mai toccati.