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di Lucrezia Di Noi

Un giorno, davanti alla porta di un laboratorio di radiologia, con una cartella tra le mani, il futuro diventa un muro di nebbia oltre il quale non riesco o non voglio vedere altro. Mi sento tradita dal mio corpo, questo corpo che ho sempre amato e curato o almeno così credevo, ma mi sorge il dubbio di non averlo fatto nel modo giusto. Consulto il primo chirurgo che non ha dubbi sulla cattiveria del mostro che si è annidato in me e poi il secondo che esprime lo stesso giudizio e per entrambi la parola d’ordine è operare subito, ma prima devo sottopormi al test dell’agoaspirato, perché non si sa mai, e devo attendere dieci giorni per conoscerne l’esito. Ogni mattina svegliarsi è precipitare nell’incubo di una nuova giornata, la tristezza mi devasta, piove spesso, è tutto grigio dentro e fuori di me, la pioggia che di solito mi piace aumenta la mia tristezza e trascino le mie giornate come una navicella vagante fuori orbita in un universo sconosciuto e infido.
Il momento tanto temuto della risposta al test passa quasi in sordina perché in realtà quella risposta io l’ho sempre conosciuta, mi dicono che la settimana successiva devo sottopormi ad un altro esame e al colloquio con l’anestesista – ancora una volta, mentre il medico parla, parte del mio cervello resta assente, chiusa, non ricettiva, so di non potermi permettere di sapere tutto – e intanto viene fissata la data dell’intervento. Ho paura, sento che mi è stato rubato il futuro e che quello che resta, forse, andrà completamente rinegoziato. Tante volte ho sentito parlare di forza in questi casi, io posso solo dire di non averne. Nei giorni che seguono altri prelievi, ECG, incontro con l’anestesista e con la psicologa con la quale mi ritrovo a parlare per oltre mezz’ora prevalentemente del dolore, ancora non elaborato, per il mio recente pensionamento. Forse è un ennesimo tentativo di fuga. Passano i giorni e mi rendo conto che non vedo l’ora che arrivi quello dell’intervento. Mi rifiuto di guardare e men che mai di toccare quella parte del mio corpo che ho deciso di non considerare più mia, ma qualcosa di brutto, cattivo, contaminato da cui desidero liberarmi e spero che quel momento arrivi al più presto.
Il giorno prima dell’intervento mi mandano al polo oncologico per l’ individuazione del cosiddetto nodulo sentinella. Percorro lentamente i lunghi corridoi del seminterrato, dalle pareti dipinte di giallo, sulle quali si riflette la luce fredda dei neon e alla fine mi ritrovo in un mesto contenitore di umanità dolente accomunata dall’espressione smarrita e dallo sguardo vuoto.
Dopo una discreta attesa, mi fanno accomodare in una stanza zeppa di macchinari dall’aspetto minaccioso, mi fanno stendere su un lettino, mi praticano una puntura sul seno sinistro, poi, tramite una specie di nastro trasportatore la macchina-mostro avanza verso di me o io verso di lei, una piastra quadrata si abbassa sopra di me, mi sfiora il viso, mi dicono di ruotare la testa verso destra, mi sento schiacciata o peggio, complice la mia claustrofobia, ho la sensazione che mi si chiuda in faccia il coperchio di una bara e poi ha inizio il servizio fotografico bi-tri-pluridimensionale alla ricerca del linfonodo sentinella che l’indomani il chirurgo mi asporterà ed esaminerà sperando che non sia stato ancora intaccato dal mostro. Mi marchiano e incerottano il seno in lungo e in largo e mi rimandano a casa.
Il pomeriggio, la serata, la notte scorrono nell’ansia più devastante, sono dilaniata dai pensieri più macabri e tra questi anche il terrore di una eventuale temutissima mastectomia, nonostante il chirurgo mi abbia garantito la quadrantectomia. All’alba del mattino successivo mi catapulto dal letto quasi sollevata dal fatto che ormai ci siamo, l’attesa è finita, tra qualche ora il mostro sarà estratto dal mio corpo. Ma l’idea dell’intervento chirurgico continua ad essere associata nella mia testa a qualcosa di cruento, una sorta di sacrificio, di tortura, di squartamento seguito da sofferenze inenarrabili del povero corpo martoriato.
Arrivo in clinica sotto un cielo di inchiostro, squarciato dai fulmini, diluvia, tutto aumenta la mia angoscia, l’atrio, le scale e i corridoi sono bui, deserti e silenziosi, l’unico rumore è quello della pioggia che picchia violenta contro i vetri delle finestre. Mi ritrovo in una stanza vuota e un’infermiera mi ordina di spogliarmi e di indossare, entro 5 minuti, il camice verde che mi porge: obbedisco, completamente in trance, e, tremante come una foglia, scivolo sulla barella verso la temutissima sala operatoria, ho tanto freddo, cerco di pregare, ma la mia mente formula solo brandelli di pensieri sconnessi. Un infermiere dagli occhi buoni e dalla voce carezzevole tenta di rassicurarmi mentre mi infila sul dorso della mano l’ago cannula per la flebo che, mi promette, dissolverà la mia ansia, naturalmente non gli credo, ma miracolosamente dopo qualche secondo mi sembra di galleggiare nel mare della serenità. Quando mi risveglio, a parte un fastidioso bruciore in gola dovuto all’intubazione, non provo alcun dolore, sono contenta di essermi svegliata, piango di sollievo, vedo la faccia di mio figlio e sento la sua voce che dice: tutto bene, che tradotto significa che il nodulo sentinella non era ancora stato intaccato dal mostro.
Mi portano in camera, cerco di indovinare con la mano destra attraverso le bende cosa manca al mio corpo e, sia pure a fatica, realizzo che è tutto lì ancora al suo posto.
Il decorso postoperatorio è tranquillo, vengo dimessa due giorni dopo, cerco di concentrarmi sulla gradevole sensazione che il mostro non c’è più e per la prima volta dopo 49 giorni dormo tranquilla.
Anche il periodo successivo trascorre abbastanza serenamente e trovo persino il coraggio di leggere, sia pure con circospezione da ipocondriaca, la cartella clinica.
Un mese dopo l’oncologo mi prescrive la radioterapia e una terapia farmacologica della durata di 5 lunghi anni. Sulle prime sono sollevata perché il mio cervello traduce radioterapia alternativa alla temutissima chemioterapia, tanto sollevata che nel pomeriggio mi fiondo dal parrucchiere: nell’ultimo mese avevo completamente distolto l’attenzione dai miei capelli pensando con terrore a quando avrebbero potuto non esserci più. L’oncologo però mi dice anche che il nodulo sentinella non era completamente indenne da contaminazione, ma non si sofferma più di tanto né sull’entità del danno, né sugli effetti collaterali della terapia, forse perché da me non richiesto o forse perché appartiene alla categoria di medici che, a torto o a ragione, non ritengono utile appesantire ulteriormente la situazione psicologica di pazienti che, in queste situazioni, non hanno molta facoltà di scelta.
Dopo una serie di labirintiche peripezie burocratiche e scontri con la malasanità locale, approdo, dopo oltre un mese, davanti alla scrivania di una giovane dottoressa, molto diversa dal primo, forse perché agli esordi della carriera e sprizzante ansia da prestazione da tutti i pori, che si produce invece in una doviziosa elencazione e rappresentazione di tutti gli effetti collaterali delle trentasei sedute di radioterapia che mi attendono e che potranno o avranno, non so -quando glielo chiedo mi risponde che se queste terapie non avessero effetti collaterali non avrebbero neanche l’effetto principale e sarebbero inutili-  ricadute sul polmone sinistro, sul cuore, sulle ossa, sulla colesterolemia e chissà su quanto altro ancora.
Il discorsetto è ineccepibile, ma è in questo passaggio che prendo pienamente coscienza della mia terribile condizione di malata oncologica – sino a quel momento ho rifiutato di pensare e men che mai di pronunziare anche la parola, nella puerile convinzione che le parole a volte danno corpo alla realtà e che, se non pronunziate, quella realtà resta congelata allo stato embrionale – e perchè sino a quel momento ho considerato la mia malattia come tutte le altre, con un inizio, un decorso più o meno variabile e una fine ovvero una guarigione o anche no. E invece no, perchè il malato oncologico entra in un tunnel da cui non uscirà più, un tunnel di farmaci, di terapie, di controlli, di paura. Insomma una crepa definitiva nel fisico e nella mente, una vita in ginocchio che non so se voglio vivere.
E alla sensazione iniziale di stordimento, a quella di sollievo post intervento, di rassegnazione fiduciosa alle terapie, segue quella di vulnerabilità e soprattutto di rabbia, una rabbia a momenti incontrollabile contro tutto e tutti che esplode e si traduce in quella domanda tanto dolorosa quanto inutile che sino a quel momento era rimasta sopita in un angolo della mia mente “perché proprio a me?”