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Photo by Artem Beliaikin on Unsplash

di Lorenza Cianci

Quando perse il suo amuleto, la Nemesia del balcone era già scialba, si può dire in procinto di suicidarsi. Il muro aranciato di fronte casa saettava nel cielo turchino delle 19:00 una luce dai toni tragici che assicurava una certa pomposità alla recente scoperta: il colpo d’occhio era sfacciatamente fastidioso. Il suo amuleto era caduto volando da qualche parte, forse su uno dei ponti tra via Libia e via Stalingrado, sfuggendo dal collo, lasciando all’altezza delle clavicole un buco magro e vuoto. Il tutto era stato preannunciato da un leggero fastidio alla gola, il giorno prima, e da un incubo inaspettato, presago dell’imminente sciagura. Okay, don’t worry, don’t stop me now. Che la terra sia lieve, d’ora in poi.

Per capire chiaramente questa storia, bisognerebbe partire da lontano. Siamo nel 1996: una mamma con un nome esotico portò ai piedi di una nave una bambina di tre anni corvina, con una frangetta spappolata sulla fronte tagliata a mani nude con la forbice da giardiniere, breve tocco stiloso che la rendeva una perfetta Lolita. Tale nave, alla visione stereotipata della bimba, dava l’impressione del poderoso Titanic. Il porto di Civitavecchia era un blocco di cemento triste. La foto fu scattata proprio su quel blocco, ai piedi di quell’Amerigo Vespucci. E tutto ciò che rendeva felice quel flash di vita semplice e mediocre, era una gonna a papaveri rossi, che brillava con la forza evocativa della speranza. Quella foto, sviluppata dalla Kodak usa e getta di un certo Patrizio che le accompagnava, venne riportata alla luce circa quattro anni dopo, mentre i vari scatoloni erano pronti all’imballaggio e tutti i presenti erano pronti alla partenza verso il futuro. Quella Lolita corvina e senza più alcun retaggio dell’originale frangetta la raccolse, e la salvò per sempre all’oblìo. La appese nella sua nuova cameretta, che si trovava a due passi dal chiosco di Rino, in uno sperduto paesino del Salento.

A soli nove anni, un ragazzino biondo con le lentiggini si piazzò davanti a lei, offrendole il suo gusto Goleador preferito, all’uscita da scuola. Il particolare delle lentiggini non è trascurabile perché a distanza di molti anni da quell’incontro furono l’unico espediente che le permise di identificarlo nella lista dei suoi millantati adulatori. Quella carta di plastica con la foto di un attaccante fascinoso fu conservata sapientemente accanto alla foto dell’Amerigo Vespucci. Quello, fu il suo primo amore.

Quando a undici anni, la mamma con il nome esotico sparse endemicamente in giro per il paese la storia della “signorina”, era il giorno della sua prima comunione. E per tanto tempo la bambina in bianco di quel giorno si chiese se zia Contina fosse venuta con quel bel cesto di fiori confezionati e carciofi per augurarle un gran successo come ancella del Signore, o come promessa a qualche avanzo di galera con cui il suo patrigno la voleva maritare. Vicino all’Amerigo e alla plastica della Goleador, finirono anche i petali esausti del giglio di comunione.

I diciotto anni furono festeggiati con una Saint Honoré dai bignè industriali e un biglietto, piegato in quattro e legato con un fascio verde. Lo scriveva Germana. Germana era una ragazza bella e grande. Un ondulato mosso senza grandi pretese e un corpo magro senza grandi pretese. Di Germana amò la voce. Ma non essendo invitata, allo scoccare di mezzanotte, la ormai impavida signorina, aprì il suo biglietto, lo richiuse, ascoltò il loro brano d’amore e pianse giusto una lacrima. Così capì che l’amava. Per cui: Amerigo, Goleador, i petali di un giglio esausto, e il fascio verde.

Aveva perso il conto dei suoi anni, in quella fervida età che si chiamava gioventù. Piazza Minghetti, le poste centrali e il mercato dei fiori. Un garofano che cercava aiuto sembrava guardare di traverso l’indifferenza degli uomini. E un baldacchino con dei cesti di lavanda appesi faceva venire l’emicrania. Si chiamava Sara. Era una di quelle clandestine del mare che avevano cambiato nome con uno all’occidentale. Forse si chiamava Dominique, o qualcosa del genere, perché diceva di essere nata di Domenica: “Guarda il banchetto. Quale colore ti ispira?”; Beh, certo, le ispirava un gioiello allungato con una pietrella azzurra sgargiante. “Gli occhi non mentono. Ora è tua: appendila al collo”. Concordarono pochi euro, e poi fu sua. Angelite. Si diceva avesse il potere di placare le menti iperattive da ipotetici crolli nervosi. E fu così. Amerigo, Goleador, i petali di giglio esausto, il fascio verde, e l’Angelite.

Quando perse quell’amuleto, la gioventù era finita. Suo marito Armando le rimproverava il fatto che non avesse ancora deciso di iscriversi in palestra e Claretta aveva già compiuto due anni. In tv in quel periodo davano sempre un gioco a premi a cui volevano partecipasse per mettere a frutto la sua buona dose di cultura, e per riscattare plurime lauree mai fattivamente utilizzate. Nessuno la amava. Le rimanevano solo quelle strade vituperate dal caldo, e la forza insondabile di quei ricordi. La vita di quella donna si scandiva di elementi, e la matrioska degli affetti, si componeva di pochi, densi passaggi. Gli occhi rugati grandi e sporgenti che nessuno mai aveva amato, portavano con sè da qualche parte la voglia di studiare i simboli incastonati in quegli oggetti accumulati, di giungere a un compromesso, pacificare con l’incomprensione che le veniva dal mondo. E l’Itaca giunta in quella età di mestizia per incoscienza di sè, ora che anche quell’ultimo momento di senso si era perduto con la dipartita del suo amuleto, le implorava di capire, e di cambiare.

Amerigo, Goleador, petali di giglio, fascio verde, Angelite, SOLA.