
La ripartenza
di Fabrizia Fedele
Roma, 28 maggio 2020. La ripartenza potrebbe essere anche un riarresto. Ce lo dicono continuamente. Ce lo ripetiamo come un mantra. Eppure bisogna riprendere la vita di prima. Anche questa è una frase fatta, stantia e menzognera. Io non voglio riprendere la vita di prima. Questa quarantena mi ha cambiato. Irrimediabilmente. Ho fatto i conti con la mia vita e le mie scelte e mi sono detta che ho fatto bene a prendere la strada che ho preso. Nessun rimpianto. Ho scelto di vivere come vivo e questo mi consente di stare bene anche in quarantena. Ho capito che non saremo mai “più quelli di prima” perché il cambiamento ormai si è innescato e non si può tornare indietro. Io sarò sempre più selettiva: le persone con cui passare il tempo saranno solo quelle che voglio vedere, con cui condivido progetti o con cui sono legata affettivamente, niente ammucchiate! La casa è il mio quartier generale: sarà sempre più confortevole, mi farò portare a casa viveri e suppellettili. I locali e i negozi dove andrò saranno scelti in base allo stile e al senso civico di chi li gestisce. La buona educazione, il rispetto dell’altro, l’empatia e il buon umore saranno i punti cardinali della mia bussola.
Io non voglio la vita di prima. Voglio la vita di adesso e mi sto abituando alla mascherina.
Due mesi dopo
di Silvia Zuffrano
Roma, 11 maggio. Due mesi esatti dalla dichiarazione di zona rossa dell’intera nazione. Detta così sembra sul serio che ci sia stata una guerra. Io l’ho vissuta più come una segregazione volontaria, due mesi, di cui una settimana di semi libertà che per me è praticamente volata. Avevo perso il senso di evanescenza del tempo, la rincorsa ai minuti che scappano tra il traffico e gli impegni. Stando a casa le ore si sono riempite, i minuti si sono ingigantiti. Pulizie di pasqua anticipate, lezioni di yoga per calmare la mente, cyclette per tenersi in forma, telefonate ad amiche e parenti senza chiudere con ‘scusa devo andare ho un impegno’, e anche non far niente, senza sentirsi in colpa. La frase ‘ho perso tempo’ è sparita dalla mia bocca e dai miei pensieri. Anche perché ci siamo dovuti reinventare man mano che l’isolamento continuava di volta in volta a botta di decreti urgenti ben oltre i quindici giorni previsti all’inizio.
Oggi a Roma c’è stato il terremoto, una scossa leggera prima dell’alba senza conseguenze. A me non è sembrata leggera, anzi mi ha ricordato il drammatico terremoto dell’Aquila del 2009 che sentii benissimo anche se in un’altra regione. Mi sono svegliata di soprassalto con questo buongiorno, sospesa tra scegliere di agitarmi e/o sperare che non ci fossero altre scosse. Sono momenti in cui vorresti che qualcuno ti indichi cosa fare, che qualcuno ti faccia da specchio per dirti che sì è tutto vero, non te lo sei sognato. Ho aperto le serrande, era ancora buio, per vedere chi altro si fosse svegliato oltre me e alcuni appartamenti effettivamente avevano le luci accese, ma nessuno è uscito fuori. Ricordavo che negli anni passati, quando si sentiva il terremoto, si usciva in strada, non si dormiva più per la paura che accadesse di nuovo e si restava a scambiarsi le impressioni o lo spavento fino a quando sollevati si rientrava in casa, magari a riprendere il sonno interrotto. Forse quegli anni sono lontani o forse abbiamo accettato di vivere in un paese sismico. Ci siamo abituati (non so come) a questi eventi catastrofici, a persone che vanno via in pochi instanti. Ci siamo abituati a vivere il dolore dentro dei container per anni.
Proprio come è accaduto in questa pandemia. Prima qualche avvisaglia, poi la rapida diffusione del contagio e della paura che ci ha inchiodati in casa, che ci ha costretto ad abbandonare i nostri cari nella malattia, molti ce li ha portati via, inghiottiti questa volta in un forno crematorio senza avere la possibilità di scegliere. Siamo entrati in una sorta di anestesia emotiva che ci sta facendo accettare le mascherine sul volto, le distanze di sicurezza, le divisioni al ristorante. Non vorrei che per il covid-19 o per questa pandemia noi ci abituassimo troppo presto. Nei due mesi di quarantena, mi sono ripetuta spesso che nel dramma siamo stati fortunati a non avere altre catastrofi naturali. Come le avremmo rispettare le distanze nei soccorsi? Per non parlare delle risorse economiche da mettere in campo!
Oggi invece mi viene un dubbio. Non è che deve arrivare un terremoto per farci capire che è ora che torniamo alla normalità?
La piuma nella mano aperta
di Tiziana Bavaro
Quarantena, sesta settimana. Mi sono rifugiata qui fuori nel mio giardino, per sfuggire alla rumorosa videolezione del figlio del mio compagno. Qui, seduta sulla mia morbida poltrona dai cuscini viola, mi godo questo silenzio; le voci dei bambini di seconda elementare e quella stridula della maestra, sono sullo sfondo.
Qui fuori, tutto è su una nuvola: sospeso… adagiato sul mondo, leggero come una piuma in una mano aperta.
Questa pioggia sottile, che cade sulle tante piante picchiettandole delicatamente, come per grattarne affettuosamente le foglie.. ed è come se ogni pianta si stiracchiasse sotto il suono di questa pioggia, svegliandosi da una pennichella post pranzo. Come delle gatte che fanno le fusa ad ogni goccia, adoranti e beate.
Tutte in fila, rinfrescate e dissetate, dopo giorni di sole si godono questa breve pausa umida.
Io osservo e mi confondo. Mi confondo con questo substrato di mondo, selvaggio e non addomesticato. Esco per un attimo dalla gabbia della società, dalla frustrazione della chiusura forzata, dalle ansie del -forse- prossimo rientro alla normalità.
“No, ancora questi fastidiosi pensieri! Andate via…” Li scaccio dalla mia mente come fossero insetti molesti.
Sí, perché io detesto gli insetti! Anzi: ridicolo a dirsi, ma mi fanno abbastanza orrore.
Eppure in questo momento, non mi turbano affatto; posso vedere qui intorno diversi moscerini, che svolazzano in quest’aria sospesa e bianca. Anche loro su una nuvola, anche loro leggeri come piuma. E quasi mi viene da sorridere, eccitata per tutto questo: i tronchi dei due grandi alberi che questo giardino ospita, lucidi e bagnati, il legno profumato..
E quanti versi di uccelli! Non li avevo mai notati, in tutte queste sfaccettature queste tonalità queste note e questi timbri così variegati.
Il mondo esiste, continua a danzare… noi siamo chiusi, chiusi dentro le mura di casa dentro le nostre nevrosi dentro i nostri pensieri molesti come zanzare, mentre il mondo fluisce.
Osserva quel che accade, quando c’è il sole, quando piove, quando tuona, quando è l’alba e quando il sole la sera si spegne.
Osserva e basta.
E prende il buono, prende il bello, prende la realtà semplicemente per quella che è.
Mentre noi abbiamo bisogno di non pensare, di scacciare, di pianificare, di sentirci qualcuno.
Di spillarci sulla pelle selvaggia un’etichetta. Che sia esattamente come gli altri la vogliono.
O peggio, come noi ci convinciamo di desiderare.
Basterebbe chiudere dietro le nostre spalle la porta del giardino, ed uscire, in questo pezzo di mondo. Basterebbe soltanto stare, essere. Respirare. Ascoltare. E saremmo anche noi piume su di un palmo aperto..
Domani è Pasqua
di Alice Valerio
Marino (Rm), 11 aprile 2020. Non ho mai amato le feste religiose: mi hanno messo sempre una grande tristezza. Nonostante tutto domani mi sentirò diversa, non ci saranno quelle persone che ormai da 25 anni in qualche modo si sono “sostituite” alla mia famiglia, ai miei genitori ai miei fratelli, o a quegli zii e cugini che a causa della lontananza vedo sempre meno. Non ci sveglieremo tutti nella dimora marchigiana, il Colle, dove i miei suoceri ci accolgono sempre a braccia aperte, non ci saranno le mie cognate, i nipoti di mio marito, i miei figli che in pigiama attendono, che a preparargli la colazione sia per tradizione la nonna. Non vedremo quella tavola imbandita di uova sode, salame fatto in casa, pizza di Pasqua, dolce a forma di enorme fungo ricoperta di glassa bianca e praline colorate. Non vedrò tutti questi parenti sorridenti e io come al solito a osservare questa felicità che non è cresciuta con me, soprattutto nei giorni di festa. Partecipando a questi incontri da ben 25 anni per amore di mio marito e dei miei figli, per molto tempo mi sono convinta che la famiglia di mio marito potesse col suo affetto colmare quel vuoto creato da una famiglia anaffettiva, la mia, per poi accorgermi che le persone non si possono sostituire. Ma vedere mio figlio di 18 anni e l’altro nipote di 15, come i due piccoletti di 8 anni prendere a pugni le uova dopo pranzo, mi ha fatto sempre ridere molto, poi i grandi ricevevano un piccolo regalo economico da parte dei nonni. Mi mancheranno le cugine di mio marito, che suonano alla porta per salutare la loro zia, che parlano urlando, ridono e si rattristano sempre a gran voce. Le uscite sulle strade del Colle, che si riempiono di bambini che giocano a pallone, i ragazzi che giocano a racchettoni per poi subito dopo isolarsi coi loro smartphone. In fondo tutti mi regalano un po’ dell’infanzia che non ho avuto, soprattutto le femminucce a cui compro sempre i gessetti per creare disegni sull’asfalto o per disegnare la tabella per giocare a campana. Il bello del Colle è che non ha età, tutti parlano con tutti, i ragazzi giocano con i più piccoli a pallone, le femminucce più grandi giocano ancora a fare le maestrine con le più piccole, la terra e i sassolini sono ancora materiale da usare per realizzare finte torte. I giochi sono sempre gli stessi tramandati da cugino a cugino, lì tutto si riesce a condividere, anche la saggezza dei più anziani. Le gare di corsa, allineati dal più piccolo al più grande sono spettacolari: chi corre in ciabatte, chi con le scarpe lise, chi con quelle nuove per la festa, pronti a partire, aspettano il via da un adulto. In queste corse succede di tutto, dei bambini cadono, altri piangono perché non hanno raggiunto il traguardo, chi perde la ciabatta per strada e si ferma per sganasciarsi dalle risate, ma una regola rimane ed è sempre la stessa tutti arrivano prima o poi primi. I cugini di mio marito durante i loro giorni di ferie lavorano incessantemente, portano avanti le tradizioni dei loro padri, coltivano le piante del loro orto, cavano le patate, raccolgono le zucchine quando è il loro periodo, chi vi abita da sempre ha addirittura un’intera fattoria. Massimo è stato fortunato fin da quando aveva 13 mesi, l’estate l’ha passata sempre lì con i nonni e tutte quelle zie anziane che oramai avendo i nipoti grandi, lo aspettavano ogni mattina per regalargli un biscotto e farsi una breve chiacchierata con lui, “com’è educato questo bambino” mi dicevano le zie e tutti i parenti, in effetti era un bimbo che riusciva a farsi volere bene. Ad un certo punto quando meno te lo aspettavi passava un cugino di mio marito con le rispettive figlie a cavallo, a turno facevano salire i bambini e i ragazzi, gli facevano fare un giro e poi avanti un altro. Quest’anno ci perderemo tutto questo.
Domani saremo solo noi, io e la mia famiglia, vedrò i miei figli battere i pugni contro le uova di cioccolato, Marta ne romperà tre mentre Massimo uno, mi gusterò la scena di Marta mentre cercherà di corrompere il fratello per averne un quarto, mio marito sarà allegro a modo suo, come sempre, e io sorriderò. Sarò comunque felice, ma il mio pensiero per un attimo andrà a tutte quelle persone come mio padre e i miei fratelli, che non potranno riunirsi, neanche a turno, facendo finta di essere felici di vedersi, per poi uscire dal portone dell’uno e parlare male dei misfatti dell’altro.
Ai tempi del Covid 19
di Alice Valerio
Marino (Rm), 10 aprile 2020. Marta ha terminato i suoi compiti scolastici. Ieri finalmente è entrata in vacanza, non riceverò più per qualche giorno messaggi sul telefonino da parte delle insegnanti. All’improvviso quel telefonino non suona più, di prima mattina e ininterrottamente. Questo strano silenzio e l’idea di non poter aiutare Marta nell’assolvimento dei suoi compiti mi fa entrare in una profonda angoscia. Sono abituata alla “clausura”, ho vissuto un’infanzia lontana dai cugini, zii, amici, la mia famiglia, era una di quelle famiglie sole, ambiziose prese a fare sacrifici per sollevare il “mattone”, per dimostrare a tutti che ce l’avevano fatta. A Roma se pur in periferia, ad ogni mattone sollevato, i sacrifici aumentavano. E’ un po’ che non parlo con la mia famiglia di origine, tranne con mia madre che vive a chilometri di distanza da qui, sempre pronta a lagnarsi di tutto e di tutti, ora stranamente sembra felice, almeno per un bel po’ non avrà più motivo di venire a Roma, col Covid 19 si è finalmente convinta che deve restare a casa. Poi penso ai miei fratelli che sono in una borgata di Roma da cui io sono fuggita, non ci sentiamo neanche in questo momento così particolare, sono io a contattare uno di loro, quello che è stato padrino di cresima di mio figlio Massimo. Massimo, oggi è la mia più grande preoccupazione, da quando non esce più di casa mangia sempre meno, ogni giorno perde un chilo, i suoi capelli si stanno diradando, si sta stempiando mi dice, quasi con tono accusatorio, rimarrà senza capelli come mio padre e i miei fratelli. Sì, loro sono calvi, ma io fin da piccolino l’ho sempre rassicurato, combatteremo insieme la calvizie, non sarà anche per lui un segno distintivo. Poi lo invito a ragionare: è sempre più pallido, la sua magrezza si evidenzia ogni giorno che passa, sarà mica la tristezza che lo sta avvolgendo come una coperta troppo stretta? Non sarà per questo che sta perdendo i capelli? Cerco di portarlo con me, sotto casa, lo invito a buttare l’immondizia, poi ci fumiamo una sigaretta insieme, e cerco di ascoltarlo, gli consiglio di uscire qualche volta di casa con la mascherina, i guanti per andare dal tabaccaio, è da un po’ che c’è quella lettera importante, a cui mettere il francobollo e spedire. Ormai è maggiorenne sempre con l’autocertificazione in tasca e le dovute accortezze, può andare anche lui a fare la spesa al supermercato, ogni sera c’è l’immondizia da buttare e i corsi online da seguire… gli chiedo di non abbattersi! So cos’è la tristezza, quella che ti fa vedere solo buio, non posso permettere che ciò accada anche a lui, quindi chiamo tutti, gli zii e i nonni paterni, poi mi faccio coraggio e mando un messaggio a mio fratello che ogni tanto lo chiama, sono preoccupata, chiedo loro di ascoltarlo, e di chiamarlo con una certa frequenza. Mio fratello, il suo padrino accetta subito l’invito, lo chiama, vedo Massimo sorridere, ciò mi rende felice, passano quasi mezz’ora a parlare, a condividere quelle passioni che paiono essere in comune. Terminata la telefonata, mi dice che è felice, ma sempre dispiaciuto che non parlo con gli zii e il nonno, gli spiego per l’ennesima volta che la mia è una scelta, dura, dettata da molte delusioni subìte soprattutto negli ultimi quattro anni. Gli spiego inoltre di essere consapevole che la mia è una decisione dura, ma è la risposta di una donna che ha scelto di non cedere a dei compromessi impossibili da accettare. Ma ora non è il momento di parlarne, tutto questo non m’interessa, ciò che m’interessa è la famiglia che ho creato, insieme a suo padre, che non crolli, neanche a causa dei limiti dettati per fronteggiare il Covid 19.
Le videolezioni, la gastrite e l’invidia del volo
di Valeria Pritoni
Bologna, 9 aprile 2020. Le lacrime scendono a fiotti. Una banale discussione, ai tempi del coronavirus, diventa motivo di pianto. D’altra parte, in questi giorni ho i nervi a pezzi e non soltanto i nervi.
Il mio apparato gastrointestinale sembra mi abbia dichiarato guerra e non so se credere che il tutto sia dovuto allo stress o che, dopo tanti anni di colite spastica, io sia arrivata, proprio adesso, all’ultimo stadio.
Mi hanno telefonato che, comunque, a causa dell’emergenza sanitaria in atto, non posso fare la colonscopia, già programmata, se ne parlerà a maggio-giugno, mi contatteranno dall’ospedale.
E la mia fragilità sta venendo a galla in maniera esponenziale.
Sono giorni difficili per tutti, di mio, ci ho messo un grave lutto in famiglia e un lavoro tutto da inventare.
Ma non voglio parlare del lutto recente, è come se scrivendone lo profanassi, è ancora troppo presto per la giusta distanza.
Meglio virare sul tema lavoro: chi mai si era dedicato prima alla didattica a distanza?
Ogni giorno, dirigenti e genitori alzano il tiro delle richieste.
Questo sarebbe pure il mio ultimo anno prima dell’agognata pensione! Naturalmente non ne sono sicura al cento per cento, con l’Inps non si sa mai, ma finora tutta la pratica burocratica ha seguito il suo corso.
Speravo di chiudere in bellezza, invece ci si è messo di mezzo il coronavirus e, da un giorno all’altro, mi sono vista catapultata su piattaforme online, applicazioni didattiche di qualsiasi tipo, videoconferenze, corsi di aggiornamento sulle nuove tecnologie e la necessità di imparare tutto in fretta e in maniera efficace, perché non basta saper usare il registro elettronico e meet con la sua condivisione dello schermo, bisogna anche imparare a montare filmati e offrire attività online motivanti e coinvolgenti. Sono stremata, ma soprattutto stressata dalla clausura forzata e da questo mio dovermi reinventare ancora una volta (nella mia professione è stato un cambiamento continuo nell’arco di 42 anni) e di dover rispondere in maniera efficiente a tutto e a tutti.
Mi ha fatto piacere vedere i miei ragazzi in video, in queste settimane.
Ci siamo confortati a vicenda, raccontando dei nostri animali domestici e delle nostre ricette in cucina. Loro mi hanno mostrato disegni bellissimi e invenzioni straordinariamente fantasiose, come soltanto l’ozio e il tempo sospeso riescono a creare, ci siamo abbracciati a distanza e scambiati affetto.
Adesso dovrò fare il passo successivo: la videolezione.
I colleghi e le colleghe che già si destreggiano con questo strumento, me ne hanno elencato solamente problemi e sono preoccupata.
Vorrei che l’anno scolastico fosse già terminato, che avessero trovato un farmaco efficace contro il virus, che potessimo di nuovo tornare a toccarci e a prenderci per mano. Vorrei non essere chiusa nel mio giardino, del quale già conosco ogni singola fogliolina.
Ho piantato fiori, erbe aromatiche, perfino dell’edera perché si attacchi alla rete e diventi siepe, in realtà non avevo più niente, da piantare e ho rimediato con quella.
Chiedo scusa, ma in questo momento, non riesco a pensare a chi sta peggio, anche se sono sicura che esiste chi non ha un lavoro e uno stipendio, chi ha un proprio caro in ospedale e chi è intubato in rianimazione, ma non riesco e non voglio, ho avuto la mia parte e vorrei solo uscire al più presto da questo incubo.
Ecco lo stomaco che mi manda una fitta e anche la pancia è gonfia e dolorante, sono i perfetti sintomi biologici e concreti del mio stato.
Ma non voglio parlare del dolore.
Questa mattina, un’ape e una farfalla si disputavano il nettare dei fiori di tarassaco. Ho invidiato i loro voli, hanno superato la siepe e sono andate oltre, loro!
Terrazzi condominiali
di Fabrizia Fedele
Roma, 7 aprile 2020. La quarantena continua. Senza avere una scadenza. I giorni si alternano un po’ tutti uguali. Ogni tanto si fa una scoperta, ci si emoziona di piccole cose. Io ho scoperto il terrazzo condominiale. Uno spazio sospeso tra cielo e terra, dove ci si alterna tra condòmini. C’è chi passeggia, chi fa una corsetta, chi prende il sole. L’aria è meravigliosa, il sole è terapeutico. Ci si saluta anche da un palazzo all’altro, una cosa mai successa prima. È bello, però. Sono due mattine che salgo sul terrazzo: c’è un merlo che mi guarda e che fischietta, una donna dal terrazzo di fronte fa Tai Chi. Mi piace guardare ponte Testaccio e Monte dei Cocci, selvaggio e misterioso. Riesco a vedere i cocci, i resti delle anfore romane. La cosa mi fa stare bene. Improvvisamente mi sono resa conto che fa caldo. E’ piena primavera, malgrado il virus. Malgrado la reclusione. Malgrado noi, che siamo rimasti freezati a un mese fa. Ho ancora il cappotto appeso all’attaccapanni. Devo fare il cambio di stagione.
Domani esco
di Ilaria Borrelli
Roma, 1 aprile 2020. Dodici giorni senza mai varcare la soglia di casa, è il mio modesto primato personale. Ho avuto anche la febbre, e dottor Internet , a seconda di come fai la ricerca, ti può dire che sei spacciata, o che hai egregiamente superato la fase critica della malattia. Sensazione di sbraco romano. Un po’ di sole, si vede la neve per chi abita profondamente a est come me, si immaginano piste vuote. E’ bastata la conferma di una smentita ad una circolare interpretata dal consueto buonsenso dei miei concittadini, e già stamattina il numero di corse dell’ascensore è aumentato. Nel silenzio forzato di questo distanziamento sociale si nota ogni rumore in eccesso. Si sentono molte più voci per strada, genitori sgambettanti che stringono la mano a bambini impigriti dalle videolezioni. Furgoncini che portano la spesa a domicilio sgommano come se prendessero la rincorsa per raggiungere gli amici al mare già posizionati intorno ad un’enorme frittura mista. I Romani di tutte le raccomandazioni, modelli previsionali, colonne di camion che trasportano bare, hanno interpretato che l’ingiusta punizione è quasi finita, sono stati abbastanza precisi, giusto quella volta che serviva il lievito e non si trovava, e poi alla ricerca del decaffeinato, per la salute, beninteso. Si aspetta il picco come se si aspettasse la piena del Tevere.
Io invece ho passato tutto questo tempo dentro casa a pensare al dopo. Anche per sfiducia, o per non dovermi immaginare guardata mentre indosso una mascherina a testa bassa.
E’ stata sufficiente un’arrabbiatura di lavoro, agile per di più, a far scomparire la nebulosa in cui ero immersa. Questa inaspettata ventata di quotidianità mi ha svelato l’illusorietà dei miei giorni passati, tutti. Mi sono ricordata di colpo quanto odio vedermi sottrarre il mio tempo. Non so se questa è la volta buona, per questo oggi rimango ancora un po’ a casa, a godermi il tempo con cui sto facendo pace.
Domani lascio stare i pensieri e un po’ di tempo e un giustificativo valido per uscire lo trovo.
Un’altra vita
di Fabrizia Fedele
Roma, 27 marzo 2020. I giorni passano e, malgrado il permanere dell’isolamento domiciliare forzato, cambiano i pensieri e le attività. Tutte le mattine ho preso a praticare venti minuti di yoga con un tutorial e mi fa bene. Poi inizio a lavorare. A questo sito e al laboratorio di scrittura a distanza. Leggo molto. Detesto fare le faccende di casa. Sono sempre io. Non guardo più il bollettino della Protezione Civile da quando non c’è più Borrelli, “sta poco bene, non ha il coronavirus, ma è meglio che stia a casa”, dicono. Peccato, quell’uomo serio e risoluto, mi piaceva. La sua aria grave, il suo modo di rispondere preciso e concentrato, lasciando sempre spazio a un qualche barlume di luce, mi manca. Mi hanno stufato tutte le battute e i video scemi su Facebook e WhatsApp. Basta cazzeggiare. È il momento di pensare a riorganizzare la propria vita. Trovare il modo di ripensare a una vita. Mi mancano cose semplici. Come fare colazione al bar: cornetto alla crema e cappuccino da Giuffré. Mi manca non poter fare una passeggiata fino a Santa Maria in Trastevere. Mi è rimasto un quadro dal corniciaio di San Cosimato. Non vedo l’ora di poterlo ritirare, anche se non ho ancora deciso dove appenderlo.
Va tutto bene
di Diella Monti
Forlì, 25 marzo 2020. Va tutto bene, il mio divano è accogliente e tu sei qui, in casa con me. In sottofondo qualcuno in tivù elenca nomi di città e numeri, tanti numeri. Da un mese è questa la nostra colonna sonora costante, mentre mangiamo, giochiamo a scacchi, spolveriamo casa.
Va tutto bene, mi dico, ci diciamo. Abbiamo il giardino che fiorisce nel suo selvatico stare, ed ora che i sintomi di un malessere ambiguo ci sta lasciando, nelle ore calde, passeggiamo come lucertole, senza meta, al sole primaverile.
È una novità questo vivere oggi e la cosa stuzzica la nostra curiosità, il nostro orgoglio, consapevoli di star vivendo una pagina di storia, come attori protagonisti di una scena inaspettatamente concessa loro.
La cucina profuma di biscotti e il pigiama ci regala un senso di sicurezza e intimità.
Va tutto bene, e tu sei qui in casa con me.
Non risuanano da giorni nelle stanze le grida dei nipoti e lentamente sfuma quel senso di straordinario e di novità che eccita la fantasia.
Si spegne la luce la sera e si riaccende il mattino di giorni sempre uguali.
Un saluto al telefono, come va? Va tutto bene!
Le immagini dei nipoti scorrono sul telefono, comiche espressioni che ti rubano un sorriso. Eccoli sono lì, piccoli, frenetici, guerrieri mai stanchi.
E dopo un mese ecco le lacrime! Impasto farina e lacrime, parole e lacrime, lacrime e lacrime…
Un pomeriggio di lacrime che escono da sole, per allontanare un’angoscia che sa di impotenza, di baci non dati, di abbracci a tenere carni che sanno sempre di caramelle alla fragola.
Va tutto bene, mi dico…mi dici…
Una domenica
di Anna Iafisco
Trani, 22 marzo 2020. È l’alba di un nuovo giorno, sono sveglia, apro gli occhi non sono ancora connessa alla realtà dei fatti che stiamo vivendo. Per un attimo il mio pensiero torna indietro nel tempo, a quando mi affrettavo a raggiungere l’amata villa della mia bella città di Trani, dove il profumo del mare e del verde che la circondano mi davano un senso di benessere, di pace interiore. Da quando sono in pensione, le mie lunghe passeggiate mi mancano. Poi un rumore che arriva dalla strada mi porta al presente e mi dico “siamo in isolamento”. Non puoi uscire di casa. Ma in fondo penso che io sto bene a casa mia, mi piace stare a casa: il tempo mi passa velocemente, ho tante cose da fare. Accendo la TV, prima di tutto, prima della colazione. Trasmettono il telegiornale, solo notizie di contagi che avvengono sempre con più frequenza: mi rattrista molto e ancora di più mi ha rattristato vedere tutti quei morti messi nelle bare, trasportati in un corteo silenzioso dai mezzi dei militari in altre città. Questa tristezza me la sento per po’ dentro e penso se succedesse anche a me… Ma non ci voglio pensare, io sono attenta: esco solo per la spesa ogni tanto, metto la mascherina, i guanti e poi con me ho mio figlio che mi vuole un gran bene ed è molto protettivo nei miei riguardi. Un pensiero va a mia figlia e alle mie nipoti. Loro abitano al Nord, in pieno focolaio, tuttavia spero e credo sempre che andrà tutto bene. Mi ritengo fortunata, le vedo in video chiamata e stanno bene. Ho riempito le mie giornate nel migliore dei modi, certo vorrei come tutti che questa pandemia finisca il prima possibile per poter riabbracciare i miei cari, la mia famiglia, i miei amici.
Tra i bollettini degli infetti e le fusa dei gatti…
di Valeria Pritoni
Bologna, 20 marzo 2020. Zoe sonnecchia nella cuccia, sta raggomitolata con la testina tra le zampe come a proteggersi e respira piano; ogni tanto si risveglia, fa un giro attorno al divano come a dirmi: “Sono qui eh?! Non ti dimenticare di me!”. Poi torna al suo cuscino.
Fuori il cielo è grigio, l’aria è umida e le auto scorrono sulla strada nevrotiche e rumorose. La casa per il resto è silenziosa e sembra in attesa.
Da quando è iniziata la storia del coronavirus, si alternano tra le pareti, momenti convulsi ad altri di calma piatta, in un susseguirsi continuo di miei stati d’animo che vanno dal pessimismo angosciante all’ottimismo fatalista, entrambi i comportamenti completamente estranei alla razionalità.
Accendo la tv e gli argomenti sono sempre quelli: i numeri dei nuovi cittadini italiani risultati positivi al test sul virus, i deceduti e i guariti, le indicazioni circa i comportamenti da tenere per evitare il contagio e poi le interviste a tanti tuttologi, alcuni dei quali fanno affermazioni prive di ogni logica e, infine, gli esperti, pochi, che continuano a ripetere le stesse cose, dal primo giorno, ma è come se parlassero una lingua sconosciuta perché, di nuovo vengono fatte loro le stesse domande e le stesse obiezioni, alle quali rispondono pazientemente, nello stesso identico modo, da due settimane ormai.
Ogni giorno, riesco a stupirmi dell’andamento esponenziale delle infezioni e a sentirmene allarmata, ogni giorno riesco a dirmi che comunque è solo questione di aspettare che le azioni intraprese facciano effetto e poi si vedranno i primi risultati.
Fa un po’ parte del mio modo di affrontare tutte le situazioni questo andamento altalenante, ma l’attuale drammatica contingenza ha amplificato la tendenza.
Immobili nel giardino, gli alberi ancora nudi guardano indifferenti, noi che ci agitiamo. Mi capita di osservarli, proprio quando ho l’animo in tumulto, cerco tra i loro rami la calma che non trovo dentro di me.
Sarà per questo che l’immagine di un albero spezzato, schiantato da un fulmine o delle chiome travolte dalla foga del vento risulta ai miei occhi come una figura di grande violenza che mi sgomenta .
Scendo al pianterreno, Meches, la gatta, sta appollaiata sul termosifone che, con il riscaldamento al minimo, le manda il tepore giusto. Si strofina contro le tendine della finestra e poi sta in bilico a testa in giù: è inquieta pure lei. Provo ad accarezzarla ma mi sfugge e va ad accomodarsi sulla poltrona.
Si acciambella e sento le sue fusa risuonare nella stanza: rrooonnn, rrooonn, rrooonnnn…. un suono lento e pacifico, finalmente!
Domani è un altro giorno
di Silvia Costantini
Roma, 19 Marzo 2020 – Come sempre in piedi più o meno alle otto con i trilli della sveglia dei miei due cellulari. Non ne riesco a fare a meno da quando sono diventata giornalista molti anni fa e la rimetto ogni sera nonostante ora sia in pensione da un bel po’ e scriva solo qualche volte per divertimento di vino e cibo, un settore che ho scelto anche perché non me ne ero mai occupata. Poi diciamo la verità sono sempre stata appassionata di buon vino e buon cibo. Per questo ho seguito per molti anni le lezioni di Valeria Vocaturo, una grande amica che ha inventato una delle prime scuole di cucina in Italia “Cuoche per caso”. Un’ architetta prestata alla cucine, scrissi di lei nell’attacco dell’articolo che pubblicai sulla mia agenzia, l’Agi, Agenzia Giornalistica Italia. Però, a dire il vero, io poi non cucinavo a casa, ma raccontavo la ricetta a mio marito, appassionato di fornelli, che la metteva in pratica. Cucinare non è proprio il mio mestiere, so solo tenere la penna in mano come si diceva un tempo. Per il vino ho deciso di fare un corso all’Ais e sono diventata “sommelier” dopo due anni di studio nei saloni dell’ Hotel Hilton, in uno scenario kitsch ma pur sempre sontuoso.
Colazione con caffè e fette biscottate, mezz’ora di ginnastica posturale ricordando le lezioni di Patrizio, una doccia e poche faccende di casa, una grande scocciatura, la vera prima derivante questa epidemia, perchè Margherita non può più venire per i lavori domestici visto che vive in un altro comune. Le colf non sono protette dagli attuali decreti del Governo Conte, ma io la sosterrò economicamente finché potrò. Sono cambiate grandi e piccole cose in questi giorni di forzato isolamento e ieri ho pensato che nella mia routine per esempio è cambiato il numero di tovaglie da stirare dal momento che non posso fare cene con gli amici e ora uso tovagliette cosiddette all’americana comprate in Provenza, mia seconda terra d’elezione insieme alla Toscana. Un grande vantaggio dato che tocca a me prendere in mano il ferro e già mi sono fatta una bella bruciatura sulla mano sinistra. E un piccolo dispiacere, se mi è concesso dirlo sommessamente e scusandomi con tutti quelli che veramente soffrono, è quello di non poter aprire la terrazza e la tavola agli amici.
Appuntamento con la lettura in tarda mattinata mentre in cucina il marito prepara un pranzo leggero perche’ altrimenti quando sarà finita non usciremo più dalla porta. Insalate con feta alla maniera di quelle imparate in Albania questa estate, un piatto di spaghetti al pomodoro o poco altro. Niente alcol altrimenti si rischia un pisolino pericoloso per gli effetti sul resto della giornata. Poi due chiacchiere con la sorella in smartworking, con la zia, un’amica e con il figlio “in clausura” solitaria, in un Pigneto deserto e senza più segni di movida. E a seguire con massima goduria, ecco i libri. Ho diviso le letture in tre filoni così da dare un ritmo alla giornata. Al mattino leggo storia, nel pomeriggio filosofia e alla sera prima di addormentarmi letteratura. Scandire il tempo in questo modo ha il vantaggio di passare da argomenti più impegnativi sul piano della concentrazione ad argomenti più leggeri e rilassanti che portino a dormire con serenità. In genere è un’abitudine ma ho accentuato l’uso della scansione perchè ora ci vuole più che mai per far fronte alla lunga giornata che ci attende fra le mura della casa. Lo consiglio ma probabilmente chi di mestiere studia o scrive di certo lo fa già. Attualmente leggo “La Storia della Resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli” che mi aspetta da un mese sulla scrivania, passando a “La peste” di Albert Camus che lessi quando ero adolescente e che in genere apro nel pomeriggio, poi mi dedico a Wittgenstein del quale ho ritrovato una biografia di Anthony J.P. Kenny uscita negli anni ’80 quando avevo abbandonato da tempo la filosofia per la sala stampa del Palazzo di Giustizia di Milano dove ero cronista. Infine concludo con “Cambiare l’acqua ai fiori” di Valerie Perrin. Una lettura quest’ultima adatta sicuramente a questo tempo, capace di far riflettere con pacatezza sulla nostra vita preziosa, alla fine una giornata come questa dove le tv contano i morti, il cui numero di nuovo riprende a crescere. Un pensiero mi sembra debba andare a loro silenziosamente prima del buio della notte. Intanto ho aperto un buon vino, preparato l’aperitivo e la cena sta per essere messa in tavola dallo chef di casa. Domani è un altro giorno.
Emicrania
di Silvia Zuffrano
18 marzo 2020. Oggi un forte mal di testa ha spazzato via veloce più della metà di un altro giorno di isolamento. Ho dovuto prendere un’aspirina per farmelo passare, ma ora, a pensarci bene, avrei dovuto lasciare che passasse da sé, che il mal di testa si prendesse tutto il tempo di cui aveva bisogno. Questo isolamento inizia a starmi stretto.
Sono sette giorni che non esco di casa, dall’ultimo DPCM. Sì lo so che è permesso uscire per fare la spesa di cose necessarie, ma non l’ho voluto fare, mi ero detta che non avevo bisogno di niente, sfamare una persona sola non è poi così difficile. E non mi serve nemmeno come scusa per prendere aria, in casa ci sto bene, non ho questo bisogno impellente di respirare all’aria aperta o di incontrare per forza persone.
Mi ero detta che, se davvero questo isolamento serve per non far diffondere il virus, a non pesare sulla collettività, il sacrifico sarebbe stato più sopportabile. Un piccolo sforzo ci hanno chiesto.
Così anche io ho deciso di sfruttare questo periodo per fare quelle cose che non riesci a fare a casa per mancanza di tempo. Cassetti da mettere a posto non ne ho più, ho messo ordine tra le mie bollette, figuriamoci, ho letto due libri questa settimana battendo tutti i record della mia vita.
Tutto accompagnato da un sottofondo televisivo, perché sentivo il dovere di informarmi, ma mi ha riempito la testa. Ci sono solo telegiornali e trasmissioni che ti aggiornano su questa pandemia. Tutti quei dati impressionanti sui contagiati e i morti. Ho fatto bene a rimanere a casa. E tutti quei virologi! Io prima di febbraio nemmeno sapevo che esistessero. Invece scopro che ce ne sono tanti e pure tutti bravi. Purtroppo ognuno di loro ha la sua teoria e questo non ci aiuta. Ognuno di loro dice la sua verità e la sua soluzione per il mondo intero. Io non sarei così sicura quando si tratta della responsabilità di tante persone.
Questa mattina il mal di testa non mi ha fatto accendere la TV e, a pensarci bene, mi sento meglio, più leggera.
Caro diario
di Fabrizia Fedele
Giovedì 19 marzo. Ho perso il conto dei giorni di isolamento domiciliare forzato che ci hanno imposto.
Io scrivo e leggo molto come sempre, però mi deconcentro facilmente: il coronavirus si è preso i nostri pensieri. Chissà per quanto.
Le giornate sono scandite dagli applausi alle finestre e ai balconi a mezzogiorno e dalle canzoni alle sei di pomeriggio (qui a Roma a Porta Portese si va dall’Inno di Mameli all’inno della Roma, da Azzurro a Roma Capoccia), inframezzate almeno per me dal bollettino della Protezione Civile sempre alle sei. Sentire Roma Capoccia mentre il Capo della Protezione Civile sciorina i guariti, i malati e i deceduti è un’esperienza quasi allucinatoria. Ma imprescindibile.
I primi giorni ascoltare la gente cantare e suonare alle finestre mi ha commosso e mi ha fatto bene, adesso mi sono abituata e m’infastidisce persino. Sembra un rito imposto, -un po’ come la messa la domenica per chi ci crede, anche se quella almeno è solo la domenica- e come tutti i riti imposti con me non funzionano.
Qualche giorno fa anch’io come tanti uscivo per andare a fare la spesa, poi mano a mano che la stretta aumentava e in giro si vedevano tutti con le mascherine, la cosa ha cominciato a mettermi ansia e preferisco starmene a casa. A fare la spesa ci va il mio compagno. Ieri abbiamo ordinato un po’ di cose buone da Roscioli.
Dovrò andare a fare la spesa per mia madre che è rimasta anche senza colf, perché sta male. L’altro giorno mia madre mi ha detto che aveva assolutamente bisogno del gelato, delle noccioline americane e delle gomme americane, allora io per evitare la fila al supermercato sono andata da un “bangla” a viale Trastevere, che dopo avermi dato quello che chiedevo, ha messo la punta delle dita dentro un bicchiere di plastica con dentro una pozione gialla, cosa che poi ha rifatto dopo avermi dato il resto. Più che un modo per disinfettarsi sembrava un esorcismo.
La sera mi sento molto stanca, il sonno mi assale come un mostro feroce, mi divora la faccia e poi il resto del corpo. La notte mi divincolo nel ventre del mostro e la mattina mi libero e salto fuori dalle sue fauci e sono pronta per un altro giorno da incubo.
Tre giornate nel panico da coronavirus
di Alice Valerio
Mercoledì 11 marzo. Io vivo ai Castelli Romani nel comune di Marino e lavoro a Roma: arrivo al lavoro, ricevo 60 messaggi su wzp dalle mamme tra cui in pdf l’autodichiarazione per potersi spostare, ma questo consente solo di essere giustificati per arrivare al posto di lavoro, per una visita medica importante o per andare al supermercato, la devi avere anche per spostamenti nel proprio comune e a piedi, altrimenti rischi un’ammenda. Per me è il panico più totale, non voglio che qualcuno leda la mia libertà, proprio no. Poi un’amica per calmarmi mi spiega che questo vale solo se ti sposti da comune a comune, mi riprendo, al rientro dal lavoro vado al supermercato, faccio una fila di 3 metri, fanno entrare 5 per volta. Finalmente riesco ad entrare, una commessa con la mascherina e i guanti mi dice di sbrigarmi. Mentre scelgo cosa comprare di utile un’altra prende il microfono ed inizia a urlare – si prega di essere celeri nel fare la spesa di mantenere le distanze di sicurezza tra clienti e personale addetto- In quel momento mi sale la rabbia e dimentico alcune cose, mi chiedo come faccio a non essere distante dagli altri in un supermercato grandissimo dove siamo solo 5 persone ad acquistare, vado alla cassa, sono riuscita a comprare il minimo indispensabile per 2 giorni, e di nuovo un’altra ondata di poche persone entra, la signora è al microfono per ripetere la stessa frase di rito. Arrivo a casa sfinita, ma quasi felice per aver avuto la mia piccola dose di aria esterna e brevi contatti sociali.
Giovedì 12 marzo. Sono di nuovo a lavoro, il personale e le utenze sono ridotte, dopo il discorso di Conte, tutti si sono messi paura, la situazione è più grave di quella che sembra, intanto compilo l’autocertificazione in andata, dimenticando di fare quella in uscita, non ci capisco più nulla ripeto a me stessa che se dovesse fermarmi la polizia un foglio di autodichiarazione lo hanno pure loro, una collega m’informa che se ti fermano e dichiari il falso oltre alla multa ti fai 6 mesi di carcere, no dico, questo no, è troppo. Torno a casa, trovo mio marito che mi aspetta, io sono fuori di me perché finalmente intuisco dal suo sguardo e dalle sue parole che le restrizioni sono ridotte anche al proprio comune, mi ribello alle sue convinzioni, alla sua paura, gli ricordo che ogni giorno rischio andando a lavorare e poi devo stare bloccata in casa?
Venerdì 13 marzo. Con il sorriso sulle labbra, penso di aver “sconfitto” la negatività di mio marito che abbia capito che andare al lavoro senza poi poter respirare un po’ d’aria è tra le più grandi incongruenze. Vado di nuovo al supermercato, faccio mezz’ora di fila, subito dopo, di lì a pochi metri abita un’amica di mia figlia Marta, la mamma ha preso tutti i libri, quel giorno che hanno consentito alle famiglie di ritirarli da sotto il banco di scuola, mia figlia come le altre aveva dimenticato qualcosa, io le consegno le schede di matematica per sua figlia, poi le dico che da oggi mio marito è a casa e non ci potrà più fare fotocopie, mentre stavo per andarmene mi arriva una telefonata, era un’altra mamma, con voce concitata e spaventata mi esortava a rientrare in casa: una camionetta della municipale gridava al megafono: rientrate tutti in casa, è stata dichiarata la pandemia! Agitata mi sbrigo a tornare a casa, con la paura che qualcuno mi possa fermare, allora penso: è vero gli spostamenti vanno giustificati anche nello stesso comune!
Domenica 15 marzo: il flashmob dai balconi
di Silvia Zuffrano
Sono due giorni che imperversa quel flashmob “Affacciati alla finestra Roma Mia” con lo scopo di unire, a distanza di sicurezza, tutta l’Italia o certamente Roma, il resto effettivamente non lo posso sapere. Sono quasi le diciotto e i miei vicini si stanno preparando.
Il primo giorno, qui a Fidene, dei coraggiosi hanno cantato come da programma l’Inno d’Italia, ma non qui, li vedevo dai balconi lontani e qualcuno deve aver detto: Alexa metti l’Inno d’Italia e si sentiva fino a qui. Ieri anche qualche mio vicino è partito con Azzurro e poi ha continuato con l’inno della Roma, oggi si stanno preparando in anticipo. Saranno stati tutti i post sui social, divertenti, milioni di visualizzazioni, li ho visti anche io, si saranno gasati, devo dire che oggi sono in molti, sento un vociare eccessivo.
Io non esco. Ho già passato molto tempo sul balcone, come unica compagnia il calore del sole. Nessun altro intorno a me. E’ il turno de Ma il cielo è sempre più blu, Rino Gaetano, il mio cantante preferito dai tempi di Gianna, ero piccola, lui non c’è più, adoro tutte le sue canzoni, io non esco. Tuttavia ho aperto la finestra, ma non mi affaccio.
Eccola che parte, sì è davvero bella, non sento cantare nessuno però, sarà Alexa che sovrasta le voci. Da dove scrivo posso vedere alcune persone affacciate ai loro balconi. Qualcun altro deve averla fatta partire da poco e c’è un effetto eco, davvero affascinante direi, data l’improvvisazione. Bella sì, bravi. Grazie Rino.
Non ci posso credere, è partita La società dei magnaccioni! Forte! Mi ricorda quando negli anni Ottanta la nostra vita sociale era fatta soprattutto di vicinato. Si organizzavano serate danzanti nelle case con i saloni più grandi e dovevi invitare tutti altrimenti si offendevano. E si cantavano ancora queste canzoni semplici che ci facevano tanta allegria. Nooo, adesso è partita musica tecno dall’altra Alexa, che casino vado a chiudere.
Oddio se i miei dirimpettai mi vedono chiudere la finestra mi daranno dell’asociale!!! Mi tocca subire.
Grazie Roma??? Bella sì, ma se dall’altro altoparlante ci sono i laziali si torna tutto a prima del coronavirus e litigheranno come negli anni Ottanta.
Lunedì 9 marzo: L’ultimo giorno in ufficio
di Ilaria Borrelli
Eur Palasport, rientro a casa, in ottemperanza al DPCM, per l’ultima volta per chissà quanti giorni, la metro è vuota e i pochi passeggeri presenti rimangono in piedi, igienici, distanziati, in conformità al DPCM.
Mi guardano con aria torva: avrò il viso stanco, il naso che cola e non me ne sono accorta?
Forse non mi sto attenendo a qualche comma che ho letto troppo di fretta, pensando fosse rivolto esclusivamente ai Lombardi.
L’atmosfera è da vacanze anticipate, quando c’era qualche referendum, da piccoli, e l’anno si chiudeva lì, a inizio giugno: una libertà forzata, l’incognita di come sarebbe passato il tempo ancora deciso dai nostri genitori, gli amichetti spariti ai loro paeselli, e le strade sempre più infuocate e deserte.
Indosso un guanto nero, uno solo, è vero, ecco perchè mi osservano: ho una brutta ferita alla mano, che mi sono procurata per distrazione, e mi preoccupano tutte le possibili infezioni che potrei raccogliere sulla garza tenendomi ai corrimano. Poi, a casa, prima ancora di salutare mio marito, laverò bene entrambe le mani.
Eccomi dunque diventare una cittadina sospettabile, una mezza ladra, una storpia, o un’altra che non ha capito le prescrizioni sanitarie?
Passata la stazione Termini, rimaniamo in quattro nel vagone, direzione Rebibbia. Un signore ben vestito tiene un fazzoletto di carta vicino alla bocca come se stesse per rigettare. Non sono l’unica stravagante.
Ho voglia di sedermi, di insozzarmi di tutte le vite che si sono poggiate lì prima di me, mi inclino cautamente verso una porta, gli oblò pieni di macchie unte, migliaia di fronti poggiate per stanchezza o perché costrette dai viaggi mattutini di altri infiniti pendolari.
La metro piena è una tortura, la metro vuota è quasi sempre cattivo segno.
Dovrò scendere, e fare il mio ultimo pezzo a piedi fino a casa.
Un DPCM che presto diverrà un mero suggerimento è bastato a risvegliare i miei concittadini, ma ne dubito. Ho voglia di tornare a casa, e prendermela tutta questa pausa. Le notizie si sono troppo accavallate, e i presunti esperti contraddetti in questi giorni. E ognuno che ho incontrato mi ha rivelato senza volerlo qualche segreto di sé. Ho imparato che chi ti dice che non crede al virus spesso ha già la scorta di mascherine in casa, per esempio.
Ho bisogno di respirare senza paura e di stare a distanza da tante cose. Il virus è portatore di verità, rende fragilmente vicine le nostre paure. Gli ospedali erano già pieni, i medici e gli infermieri erano già stremati da anni.
Salgo al volo su un autobus, è una sola fermata, ma non resisto. Mi cade pure mezza boccetta di disinfettante, ma forse non ne avrò bisogno a casa. Chi mi dice che non serve forse ne avrà quintali a casa? Da stasera, grazie al DPCM sarò libera di non essere più osservata e giudicata per un po’ di giorni.
Non andrò dal parrucchiere, ma non ci andranno nemmeno le mie colleghe. Finirò di leggere uno di quei tanti libri che in metro per mancanza di spazio non posso nemmeno tirar fuori dalla borsa. La gente si dimenticherà di chiedermi se il viaggio di nozze è stato “solo” in Francia. Volevamo andare in Cina a maggio, ma eviterò di ricordarlo.
Mi getto sotto la doccia, mi detergo come se fossi uscita da un reparto infettivo. Le strisce per la depilazione si potranno sempre comprare, ma bisognerà scriverlo nell’autocertificazione. Per contro la prossima spesa ordinata online, arriva fra 10 giorni. Eppure le scorte alimentari ci saranno sempre, dicono.
Lo Stato si materializza improvvisamente nella tua vita, ma al contempo non può fare molto per te. Come le tante persone conosciute e amate fino all’istante in cui ho chiuso la porta dietro di me, stasera, che mi sovvengono tutte insieme e si condensano in un solo enorme, struggente ricordo.
L’ha ripubblicato su il Clan delle Femminee ha commentato:
Il primo testo del Diario delle Femmine ai tempi del Coronavirus, scritto da Ilaria Borrelli.
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16 marzo 2020
Oggi è l’ottavo giorno. Qualcuno un tempo impiegò sei giorni per creare il mondo. Il settimo giorno di riposó, dall’ottavo in poi presumo che iniziasse la vita.
Non c’entra nulla con la nostra quarantena se non per il fatto che da quel momento l’esistenza ebbe inizio con tutto ciò che questo fatto comporta. Se penso sl mio piccolo orto vedo la mia vita, quella dei miei familiari, dei miei amici. Penso al
Mio passato al presente ed al futuro. Penso che oggi sto qui in casa e magari vorrei andare chissà dove. Penso al mio viaggio. Ecco, il mio viaggio che ora si è fermato a questa stazione forzata. Ma è poi davvero così?
Allora voglio allargare lo sguardo. E vedo gli altri! Tutti quanti fermi alla stazione.
Chi rassegnato, chi inferocito, chi tentato di prendere altri treni che non portano da nessuna parte.
Oggi è il 16 marzo 2020. In questo giorno 13 anni fa perdevo mio papá. Forse sarei andata a portargli un fiore….
Ma sono qui e finalmente so che il mio viaggio non si è fermato. Il cammino continua. Per me, per tutti. E se lo facciamo insieme andremo lontano. Molto lontano.
Ciao
Daniela
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Grazie per la tua testimonianza, Daniela
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Grazie Diella, sei riuscita ad esprimere dolcemente emozioni complicate. Non vedo i miei nipoti da più di un mese, solo videochiamate, niente abbracci, occhi puri e risate felici, anche i capricci diventano piacevoli ora. Si aspetta è necessario, ma mancano.
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