di Silvia Zuffrano

A luglio compio cinquant’anni, ma non voglio dire che faccio il giro di boa. Va bene, la vita si è allungata, ciò nonostante di vivere fino a cent’anni proprio non mi va. L’idea di invecchiare male e dipendere dagli altri non mi è mai piaciuta. Avrò avuto sì e no dieci anni quando, con mia madre in giro per fare la spesa, incontrammo un uomo anziano con il corpo tremolante, sorretto da un bastone, con la schiena tanto curva da farlo sembrare alto come me. Si scambiarono un pò di convenevoli e nel salutarlo sentii dirle “l’importante è che c’è la salute”. Non afferrai cosa volesse dire. A dieci anni non avevo idea di cosa significasse invecchiare, sapevo solo che dovevo crescere e diventare bella come lei, conservo ancora delle piccole foto in bianco e nero dei miei genitori mentre passeggiano in strada, mi sembravano divi del cinema.
Oggi lo respiro ovunque, grazie alla medicina moderna le aspettative di vita si sono alzate e viviamo in un paese di vecchi. Mia madre alla mia età aveva già iniziato la discesa, menopausa, squilibri ormonali, osteoporosi precoce, patologie che presto l’avrebbero portata a lesioni delle ginocchia. Non ascoltava i consigli del medico né i suggerimenti di mio padre per delle terapie di prevenzione, lei sa sempre cosa fare, non ha bisogno di nessuno, e alla fine si è dovuta operare e io e mio padre abbiamo dovuto assisterla un mese e mezzo in ospedale.
In questo periodo di convivenza forzata litighiamo ogni giorno per la dieta che deve seguire. A niente sono serviti gli inviti a dimagrire fatti dai medici, cardiologo, ortopedico, neurologo, geriatra, niente, sostiene che mangia pochissimo, la sera esclusivamente uno yogurt, mica è colpa sua se non dimagrisce, certo non può morire di fame.
Non andando al lavoro, abbiamo mangiato spesso insieme e ho visto da vicino quello che già sapevo e cioè che non muore affatto di fame. Cucina porzioni abbondanti e quello che avanza si rifiuta di buttarlo, quindi lo mangia lei. Ho dovuto impormi per farle capire che io mangio poca pasta, pochissima carne, niente pane, non per capriccio, è proprio il mio corpo che me lo chiede. Dubito di esserci riuscita. Credo abbia acconsentito alle mie richieste quasi certamente per il timore che io non mi cucinassi e morissi di fame al piano di sopra o forse per un convincimento antico, tipico della gente del sud dove le mamme si prendono cura dei figli cucinando pranzi e cene abbondanti.
Le rare volte che sono riuscita io a preparare un pranzo più leggero come ad esempio un piatto di straccetti di manzo appena scottati, riso con crema di barbabietola rossa, con contorno di spinaci crudi, era buono sì, ma è buono anche quello che prepara lei e poi non può certo mangiare riso tutti i giorni.
A metà della quarantena è stata male, ha dato di stomaco. La mia prima preoccupazione è stata il virus e anche la sua, tant’è che ripeteva che non si sentiva bene e che se continuava così avrei dovuto portarla in ospedale. “Non ci penso proprio!”. Di fronte ai suoi occhi spaventati e increduli, ho smorzato i toni, le ho ricordato che in questo periodo storico all’ospedale ci si va solo in casi gravi ed è diventato un luogo ad alto rischio di contagio. Perché non provare a mangiare meglio? Malgrado fosse sofferente, le sue urla le hanno sentite anche i vicini in fondo alla strada.
Nei giorni seguenti per convincerla ho dovuto prendere posizione, minacciarla, o si metteva a dieta ferrea o avrebbe mangiato in solitudine. E’ stato stressante. Era mia madre che, fino a quando ha potuto, non permetteva che mi alzassi dalla tavola se non avessi finito il cibo nel piatto, molte volte piangevo, lo trovavo ingiusto, ma lei non si commuoveva mai, dovevo mangiare. Ora sono io che la costringo. Si è capovolto il mondo.
Adesso le cose stanno andando meglio, la dieta imposta ha dato i suoi risultati. Subito si è sgonfiata proprio come un palloncino e sentendosi più leggera ha continuato pesando il cibo, evitando di preparare dolci, sempre sotto il mio stretto controllo. Tirando le somme, mia madre è dimagrita tre chili ed è piena di energie nonostante le sue gambe traballanti. Le chiedo da quando ha iniziato a sentire che il suo corpo non era più tonico e forte. Mi risponde senza indugio che era il 1994, stava salendo sulla scala per pulire i lumi del lampadario in soggiorno come era solita fare, il ginocchio cedette e sentì un dolore atroce. “Lo ricordo bene perché avevo appena compiuto cinquant’anni”.