di Maria Laura Centi

Quattro anni compiuti da pochi giorni. Sono seduta sulla riva e lo guardo mentre salta nell’acqua, si immerge, scompare sotto le onde e riemerge dopo pochi istanti, si tuffa di nuovo, sparisce e riappare e poi ancora sotto con un altro balzo. Trattengo il fiato ogni volta che scompare, con l’assurdo timore di non vederlo ritornare su. Tengo gli occhi puntati su di lui, socchiudendoli come fanno i miopi nel tentativo di vedere meglio: resto talmente a lungo con lo sguardo fisso su di lui per non perdere di vista neppure per un attimo la sua testolina bruna e il corpo agile che si muove con la velocità e l’armonia di un delfino, che dopo un po’ avverto la tensione muscolare negli occhi e sulle tempie e mi viene da sospirare per questo timore eccessivo che mi ha sempre accompagnata ancor prima che nascesse, ma più che mai dopo. E’ riduttivo definirlo timore, è proprio angoscia che possa sparire da un momento all’altro se allento per un attimo il controllo.
Effetto dell’amore sconfinato che ho per lui, dell’importanza e centralità della sua esistenza, della consapevolezza di quanto preziosa, meravigliosa ed unica sia per me la sua esistenza.
Penso che per tutti i genitori deve essere così, non può che essere così. Anche se non vedo frotte di madri sedute sulla riva con lo sguardo ansioso e il volto teso verso i figli che sguazzano a pochi metri dalla spiaggia. Per la verità non ne vedo nessuna. Sono sola sulla riva con la mia apprensione e con un’immensa tenerezza per la sua testolina nera che appare e scompare.
I suoi occhi ogni tanto si volgono verso di me: mi fa un sorriso, mi saluta con la mano, poi si tuffa di nuovo.
E’ così piccolo, penso guardandolo, pur nei suoi atteggiamenti da ometto, nei discorsi forbiti e dettagliati, quando inventa con l’aria più seria del mondo fantastiche storie in cui leoni, coccodrilli e dinosauri vincono sempre contro il cattivo Capitan Uncino e contro i ladri che vengono a farci visita a casa e che alla fine decidono, spaventati da lui e da me, di diventare buoni. Allora lui li invita nella sua stanza per fargli vedere i suoi giocattoli, per farli divertire e mangiare con lui ed io preparo un’ottima cena per tutti.
Ogni terribile storia che inventa con il mio aiuto e la mia appassionata partecipazione finisce sempre bene, ed io spero e gli auguro con tutto il mio amore che anche nella vita reale possa andare così.
L’ansia che scompaia improvvisamente è solo una faccia della mia angoscia, l’altra, altrettanto grande, è quella di non vivere io abbastanza per vederlo crescere.
Questo mio bimbo è nato dopo una lunga attesa e una gravidanza continuamente messa a rischio da un utero bizzoso che sembrava combattere contro di me e contro il mio ardente ed ostinato volerlo. Un’attesa vissuta quasi interamente a letto, in uno stato di allerta costante, con giorni di estrema preoccupazione in cui sembrava proprio che il mio corpo non ce la facesse a contenerlo.
Dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate. Lunghe mattinate trascorse a casa da sola, distesa sul divano del soggiorno in inverno e sulla sdraio in terrazza d’estate, con i miei libri, un quaderno per scrivere e un’agenda rossa su cui annotavo la sua evoluzione, contando all’inizio i mesi e poi le settimane che mancavano alla fatidica trentaduesima settimana, termine in cui un’eventuale nascita prematura avrebbe comportato meno rischi e più probabilità di sopravvivenza. Tanti calcoli tanta speranza e una fortissima volontà di farcela: lui doveva assolutamente nascere!
Stranamente, nonostante il mio carattere ansioso, in quei mesi non mi sono mai sentita troppo spaventata. Non sono mai stata sopraffatta dal pessimismo e dall’idea sconfortante che non ce l’avrei fatta, anzi sentivo che non lo avrei perso, ero assolutamente determinata a non rinunciare a lui, anche perché non avrei mai voluto tentare una seconda volta. Avvertivo nel profondo che il mio bambino, mio figlio, non poteva essere che lui. E così aspettavo, lontana dal mondo e dal lavoro, con una fortissima volontà di farcela, concentrata esclusivamente su me stessa e sull’attesa.
E’ stato bravissimo, perché ha resistito nella mia pancia capricciosa fino al termine esatto dell’epoca gestazionale, nascendo esattamente il giorno previsto, una manciata di minuti dopo la mezzanotte. Suo padre e mia sorella sono stati i primi a vederlo, mentre ero ancora intontita per l’anestesia. Mia sorella mi teneva stretta la mano mentre angosciata chiedevo di lui perché non lo avevo ancora visto. Alle mie domande rispondeva con grande dolcezza che potevo stare tranquilla, era un bambino bellissimo, con tanti capelli neri e lunghe ciglia affusolate.
Ed ora eccolo qui, con i suoi bei riccioli scuri e gli occhietti vivaci che mi sorridono mentre esce dall’acqua.
Lo guardo e penso che anche quest’angoscia di poter morire e lasciarlo solo deve essere comune a tutti i genitori, forse specialmente a quelli non più giovanissimi che hanno figli ancora piccoli, però devo stare attenta, perché rischio di lasciarla trapelare e fargliela respirare, come un virus malefico che può infiltrarsi ed avvelenare ogni momento di serenità e di gioia.
Dopo averlo asciugato torniamo lentamente a casa, assorti ognuno nelle nostre riflessioni. Lui cammina come sempre al ritmo dei suoi pensieri e posso intuire dalla sua andatura la serenità o la turbolenza delle fantasticherie su cui è concentrato: di solito quando, come adesso, è stanco, cammina lentamente, raccolto in se stesso. Talvolta però all’improvviso nel suo incedere lento avviene una fulminea accelerazione, l’espressione degli occhi cambia, diviene più vivace, il viso accenna a un sorriso divertito e comincia a camminare così insolitamente in fretta che quasi fatico a stargli dietro: devo accelerare il passo per inseguire il corso diverso che hanno preso i suoi pensieri. Ecco che anche adesso succede, chissà cosa sta immaginando, forse una scena comica, o forse di lotta, un combattimento in cui sta sfidando un Pokemon o dando la caccia ad un feroce squalo, oppure è in mezzo a una foresta alle prese con la malvagia tigre dai denti a sciabola. Può darsi che invece sia su una nave che solca l’oceano, o in un misterioso laboratorio in cui sta escogitando un metodo per sottrarre una pericolosissima pozione a inventori e scienziati malvagi. Chissà in quale complicata missione è coinvolto in questo momento.
Il senso della vita, penso seguendolo con lo sguardo nella sua misteriosa avventura mentale, è in questa sintonia che avverto tra noi, in questo sentirmi in contatto con lui semplicemente guardandolo o camminandogli accanto.
Il senso della vita è in quello che riesco e riuscirò a trasmettergli di me, è nei ricordi che si ritroverà in futuro e per sempre.

Sono trascorsi vent’anni da allora e siamo ancora qui tutti e due: io non sono morta e lui non è scomparso tra le onde. E’ qui davanti a me stasera, come infinite altre volte, e lo guardo mentre parla. Ogni tanto mi stupisco ancora nel constatare che è diventato un uomo, anzi non riesco a considerarlo un uomo, mi rimane più facile dire che è un ragazzo, con ancora più riccioli neri, una “gran bella testa”, perché sta realizzando i suoi progetti ed è ricco di entusiasmo e di aspirazioni.
Lo ascolto e mi intenerisco, mi commuovo quasi, per l’amore che provo, ora come allora, e mi sento felice ed orgogliosa per come è diventato.
Mi domando quale parte abbia svolto io in questo processo e sarebbe impossibile rispondermi, ma quel che conta è che lui è qui a parlarmi di sé e che l’intesa e l’armonia sono le stesse di allora.
Il senso della vita è in questo momento in cui lo ascolto e immagino il suo futuro, sperando intensamente che accada come nei suoi giochi di bambino, in cui tutto finiva sempre bene.