di Samantha Rapari

Quando mia madre capì di essere incinta pianse per settimane.
Sposatasi poco più che ragazzina, aveva da subito orgogliosamente sfornato quattro figli a cadenza annuale.
Erano passati molti anni da allora quando si rese conto di me e morì di vergogna immaginando cosa avrebbe pensato la gente di una gravidanza così tardiva.
Erano gli anni ‘60, si cominciava a respirare nell’aria la voglia di trasformazione e cambiamento, le donne rivendicavano il loro diritto all’autodeterminazione, ma mia madre viveva in campagna, tra vacche, maiali, galline e campi da lavorare, lontana e al sicuro da certe idee rivoluzionarie.
Cercò in tutti i modi di sbarazzarsi di me, con intrugli vari e affaticandosi, pregando Dio di salvarla da quell’onta.
È sempre stata una donna pia e devota mia madre, mai una messa saltata, e sono certa che non si rendesse conto dell’incongruenza tra la sua richiesta e il credo cristiano.
Venni al mondo con qualche settimana di ritardo. C’è chi sostiene che i bambini nel grembo materno possano percepire gli stati emotivi delle madri, io dovevo aver sentito di non essere la benvenuta, e cercavo di rimanere al sicuro in quel posto caldo e ovattato.
Mia madre non mi ha mai trattata male, semplicemente non badava a me, limitandosi ad ottemperare ai suoi doveri e spendendosi al minimo. Non c’erano abbracci, coccole e baci, ma il cibo non mancava, il sabato mi lavava e la domenica, pulita e ben vestita, mi portava a messa con lei e il resto della famiglia.
Per fortuna vivevo in campagna e i momenti di svago erano tanti, mi piaceva occuparmi degli animali, e tutto sommato ero felice.
In seguito ci trasferimmo in città e per me iniziò anche la scuola. Fu un brutto momento: non avevo più la possibilità di correre libera per i campi e di giocare con gli animali, non ero abituata a stare con i bambini della mia età e non riuscivo a legare con loro, perché mi sentivo diversa e loro mi escludevano e mi prendevano in giro chiamandomi “contadinotta”.
Mi sentivo sola. Quel magone, quella tristezza e la desolazione della solitudine non me li sono mai scrollati di dosso, sono cresciuti in me come una bestia scura e implacabile.
Pur detestando l’ambiente scolastico, ero un’alunna diligente e capace, ma mi negarono la possibilità di proseguire gli studi: non ce n’era bisogno, da me ci si aspettava che restassi a casa e che mi occupassi dei miei genitori.
Quando mi sposai, loro vennero a vivere con me. Non era ciò che volevo ma non riuscii ad oppormi ad una decisione presa anni prima senza essere interpellata.
La convivenza tra mio marito e mio padre non fu facile essendo entrambi prepotenti e abituati a tiranneggiare, perciò per lo più si evitavano: uscivano di casa il mattino presto e limitavano i loro incontri all’ora di cena. Mio marito, introverso di suo, divenne ancora più taciturno.
Intanto io somigliavo sempre di più a mia madre, cheta e docile, sempre pronta ad abbassare la testa e ad evitare di creare tensioni, perché avvertivo che casa nostra era una polveriera pronta a esplodere da un momento all’altro.
Nonostante le tante ingombranti presenze mi sentivo sempre più sola, la bestia che covavo da anni cresceva e infine si palesò in tutta la sua atrocità.
Accadde poco dopo la morte di mio padre. Piansi tanto al suo funerale, soprattutto per me, perché mi sentivo sollevata e mi odiavo per ciò che sentivo. Di lì a poco mi trovai bloccata a letto, senza forze, senza energie, senza voglia di vivere.
La mia sofferenza era così cupa e stagnante da bloccare ogni emozione, non riuscivo nemmeno a piangere. Mia madre invece grondava lacrime: si disperava per quella povera figlia tanto malata, chiedendosi cosa avesse fatto di male per meritarsi quella disgrazia. Egocentrica come una bambina piccola, credo che si riferisse più a lei che a me.
Pur nelle mie condizioni, non venivo meno ai doveri coniugali le poche volte che mio marito mi cercava. Fui molto sorpresa quando scoprii di essere incinta.
Per mia figlia scelsi il nome Lucilla perché il suo arrivo aveva portato luce nella mia anima incupita. Di lì in avanti mi impegnai per reagire e mi sforzai di stare meglio.
Spero di essere stata una buona madre, di sicuro ce l’ho messa tutta per essere una presenza calda e amorevole, sebbene a volte la depressione prendesse il sopravvento conducendomi nei soliti territori oscuri e desolati; in passato avevo placidamente lasciato che ciò accadesse, da mamma facevo invece il possibile per non farmi trasportare alla deriva dalla sofferenza, Lucilla era il faro verso cui tornare.
Mi figlia ora è cresciuta e sta vivendo la sua vita, io porto avanti la mia.
Mia madre continua a piangere per ogni inezia, io continuo a occuparmi di lei con devozione, così come era stato deciso.
Cresciuta senza istruzione, allevata come un cane docile e ubbidiente, conciliante con tutti e dall’intelletto semplice, mia madre invecchiando è diventata sempre più infantile. Ho una piccola bambina rugosa da accudire, che mi vincola a lei ogni momento perché ha paura a restare da sola, che va lavata e seguita, che piange di continuo temendo l’avvicinarsi della fine.
Non so che senso avrà la mia vita quando non ci sarà più.
A volte mi dico che potrei cominciare ad occuparmi di me, ma non l’ho mai fatto e dubito di riuscirci. Altre volte penso che potrei finalmente cedere, lasciare che la bestia mi divori una volta per tutte e mi trascini nell’oblio della morte. Immaginarlo mi dà sollievo.
Poi però il pensiero corre a Lucilla, so che le darei un dolore troppo grande, so che ha ancora bisogno di me, e allora mi riscuoto e mi dico che non posso demordere, non ancora.
Da figlia ho dovuto prendermi cura di mia madre, da madre desidero prendermi cura di mia figlia.
E il desidero è una scintilla che rischiara l’anima.