di Maria Teresa Musso

Quel giorno me lo ricordo bene. Un giovedì grasso, il primo giorno di Carnevale, e io ero al Day Hospital Oncologico per un piccolo intervento. Durante la mattinata aveva cominciato a nevicare, così mi ero messa a guardare i fiocchi di neve che cadevano lenti e leggeri sul prato davanti all’ospedale. Mi erano indifferenti, la mia mente era altrove. Continuavo a fissare le porte scorrevoli degli ambulatori, il via vai dei medici, il passaggio di persone frettolose che lanciando un’occhiata pietosa alla sala d’attesa se ne allontanavano veloci. Almeno, questa era la mia sensazione: che la dicitura “Dipartimento Oncologico” trasmettesse ai passanti l’idea di un morbo innominabile da cui rifuggire, tanto “è una cosa che capita solo agli altri”.
Il tempo sembrava non passare mai, finché un’infermiera gentile mi disse che avrei dovuto seguirla. Improvvisamente mi assalì una paura che conoscevo bene, uno stato di ansia e incredulità che si diffondeva in ogni cellula del mio corpo, rendendomi fragile e impotente. Una sorta di lucida rassegnazione di fronte a un dolore così difficile da sopportare una seconda volta. Per me quel giorno avrebbe dato inizio a un ciclo di chemioterapia. La tanto odiata chemio si ripresentava in tutta la sua drammaticità. Mi ritrovai sdraiata su una barella con addosso l’orribile camice verde pallido, direzione radiologia. Fortunatamente l’intervento fu breve, poi mi riportarono in una saletta del reparto, ancora frastornata ma sollevata per il fatto che tutto fosse andato per il meglio. Mi sedetti attorno a un tavolo dove aveva preso posto una bella e giovane donna. Le infermiere, sempre gentilissime, soprattutto in quel reparto, mi giravano intorno chiacchierando tra di loro e io provavo un gran senso di vuoto e la voglia incontenibile di scappare, di mettermi in salvo. Il mio sguardo incrociò per caso quello della graziosa paziente seduta al mio fianco.
Notai subito il suo sorriso stanco, il volto tirato e gli occhi scuri che guardavano spenti le poche persone presenti nella stanza. Subito ci osservammo in silenzio, scambiammo qualche parola di cortesia, entrambe non avevamo voglia di parlare in quella asettica camera dalle pareti celesti. Ebbi l’occasione di incontrarla altre volte. Con lei ci furono brevi saluti, i soliti convenevoli, frasi di circostanza in attesa di cominciare la chemioterapia ma nulla di più. Una volta mi tenne il posto in sala d’attesa, dove era praticamente impossibile accomodarsi se non si arrivava molto presto. La ringraziai di cuore. Certo, era una piccola cosa, ma per me fu un gesto di enorme gentilezza e di attenzione nei miei confronti. Tra di noi aveva iniziato a prendere forma una sorta di empatia che ogni volta diventava più forte e tangibile. Eravamo in fondo due sconosciute, accomunate dalla cattiva sorte, eppure sentivo nascere nei suoi confronti un affetto. Era come se un invisibile e misterioso filo di seta ci stesse unendo non solo nella malattia ma anche nella vita. Per me arrivò l’ultimo giorno di terapia e il fato volle che condividessimo la medesima stanza. Io terminai prima del solito, quindi dopo essermi congedata dagli altri compagni di sventura, ancora tutti seduti nelle loro poltrone circondati da flebo e macchinari vari, andai a salutarla. Scoprii che si chiamava Monica. Ci scambiammo i numeri di telefono con la promessa di sentirci a breve.
In realtà volevo solo buttarmi alle spalle quel brutto periodo, quindi ero certa che varcata la soglia della camera, di lei mi sarei volutamente dimenticata. Invece accadde un fatto strano. Mentre stavamo parlando, accusai un fortissimo nodo in gola e una voglia irrefrenabile di piangere. Era come se per me fosse davvero inconcepibile poterle dire addio. Essendo molto provata dalla chemio, pensai che tutto ciò fosse solo dovuto alla debolezza e non ci feci caso. Passarono mesi senza che avessi alcuna sua notizia, finché un giorno decisi di chiamarla io per sapere come stava. Lei fu molto felice di questa improvvisata e da quel momento non abbiamo più smesso di frequentarci. Sono passati molti anni da allora e tra noi, col tempo, è nata una grande amicizia colma di affetto, fiducia, comprensione. Una vera sorellanza, un rapporto che dimostra quanto sia importante condividere emozioni, paure e momenti di sconforto.
Lasciarsi dentro sentimenti negativi diventa corrosivo per l’anima e pericoloso per la mente. Non parliamo quasi mai del “periodo cancro”, cerchiamo di relegarlo nel passato per poter guardare avanti con serenità. Certo, non è possibile dimenticare quello che abbiamo passato. È improbabile che si possa scordare il giorno in cui ti diagnosticano un tumore e il mondo ti crolla addosso privandoti di ogni certezza. Noi questo lo sappiamo bene, cerchiamo comunque di sdrammatizzare, ricordando con il sorriso le nostre teste lucide che però camuffavamo
con parrucche alla moda oppure i volti paonazzi da ubriacone dovute al cortisone che prendevamo a palate.
Non mi stupisco che il nostro legame sia potuto nascere in un reparto oncologico. In questo luogo si può toccare la sofferenza con le dita, qui la vita e la morte giocano a rincorrersi nei lunghi e freddi corridoi dell’ospedale, e la speranza di farcela a volte è più lieve di una bolla di sapone ma è anche vero che dove c’è tanta sofferenza c’è anche amore e compassione. Compassione nel senso di possedere la capacità di capire e condividere il dolore altrui per poter restituire forza e speranza nel futuro. Io e Monica ormai siamo legate da un impalpabile filo di seta.