di Liliana Paganini

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Da molto tempo ormai mi sentivo inquieta. I problemi con la mia terribile vicina di casa, proprietaria di più di metà del palazzo, si erano palesati, perché infine era uscita allo scoperto. L’orrenda vicina, che impropriamente io chiamavo signora (dico impropriamente perché il termine signora implicherebbe, oltre una condizione di stato civile, anche una corretta educazione, che nel suo caso ho constatato carente), aveva perso la sua falsa patina d’oro fatta di una strisciante ipocrita gentilezza e ora il ferro, pieno di ruggine della sua subdola natura, appariva alla vista in tutta la peculiare malvagità. Molti anni prima, quando decisi di comprare l’appartamento, mi era sembrata solo una persona esageratamente gentile, in realtà la sua eccessiva gentilezza era finalizzata a far sì che mi fidassi di lei e infatti, quando dovetti ristrutturare l’appartamento, mi presentò, magnificandola, una ditta che contemporaneamente faceva i lavori anche da lei. Alla fine capii che ero stata una perfetta idiota. Quella donnina di mezza età, alta la metà di me, con le gambe a X che, nonostante la sua mancanza di attrattiva, si muoveva come fosse una strafiga, si era fatta pagare gran parte della sua ristrutturazione da me. Era maledettamente furba. Ma ora, almeno, avevo imparato a conoscerla e a diffidare di lei. Quindi cominciai a prendere le distanze. E più prendevo le distanze meglio la inquadravo. Capii che stare in una relazione stretta con una persona è un po’ come essere dentro lo stesso abito. Non puoi vederlo se non in uno specchio. La cosa migliore è quella allora di sfilarselo per vederlo indossato da una mannequin. Così la elessi indossatrice di sé stessa. Osservandola quindi più attentamente, mi accorsi che aveva una smania di potere inaudita.
La mia condizione di artista e d’intellettuale mi apriva le porte di alcuni salotti nei quali circolavano personalità, anche importanti, della città, a dire il vero abbastanza provinciale, che abitavo. Invece a lei, nella sua condizione di artigiana commerciante, quei salotti erano preclusi.
Quando mi sposai con un personaggio autorevole che appariva spesso nelle cronache cittadine e glielo comunicai, assistetti a un prodigio. Non avevo mai capito prima il senso del detto “verde d’invidia”, ebbene, in quella occasione capii: vidi la mia tremenda vicina diventare completamente verde. Ma proprio verde pistacchio. Non nascondo di essermi anche preoccupata per la sua salute. La bile le aveva del tutto cambiato la carnagione. Da allora compresi che era affamata di soldi e di potere. E anche, che era piena di rivalità e d’invidia. Si dimostrò insomma, una vera arrivista megalomane. M’invidiava con tutte le sue forze. E allora poi, il suo odio, tangibile, lo avvertivo sulla pelle, nel sangue, mi ottundeva la mente e mi avvelenava il cuore.
Da tempo mi ero accorta che i conti del condominio non tornavano. Avevo chiesto inutilmente per anni i bilanci e alla fine mi ero dovuta imbarcare in una causa, che vinsi, per rimuovere quel fantoccio truffaldino e un po’ ridicolo dell’amministratore, naturalmente amico della suddetta signora.
Da quel momento sono diventata oggetto di dispetti puerili, che in alcuni casi si sono rivelati anche pericolosi per la salute. Più volte sono rimasta al buio improvvisamente e ho dovuto scendere e risalire quattro piani a piedi per ripristinare l’elettricità sul mio contatore. Naturalmente non avevo le prove che fosse stato qualcuno della sua numerosa e malavitosa famiglia a manometterlo e quindi le denunce contro ignoti si moltiplicavano. Una volta il contatore era stato aperto e danneggiato. Anche in questo caso, opera d’ignoti. Si è spinta anche ad azioni ridicole, ma decisamente dannose: la mia vicina occupava tutti i due piani a me sottostanti. Salendo le scale, mi ritrovavo prima di arrivare al mio, su due pianerottoli, nella morsa delle tre porte dei suoi appartamenti. Un giorno, mentre salivo le scale con una mia amica che avevo invitato a pranzo, l’orrida vicina, che sorvegliava il palazzo meglio di una vigilante, avendomi vista dalla finestra e sentendo che mi avvicinavo al suo appartamento, aprì velocemente la porta, spruzzando una gran quantità d’insetticida che invase il pianerottolo al nostro passaggio. La mia amica iniziò a tossire perché stava parlando e il veleno le entrò in gola, a me invece negli occhi che mi lacrimarono per ore. Inutile protestare. Nessuno rispose al campanello, anche se noi l’avevamo sentita molto bene aprire e chiudere la porta, un momento prima. Dopo questo episodio decisi di prendermi una vacanza e partii per due settimane. Mentre ero fuori facevo strani sogni: mi appariva la mia odiosa vicina in primo piano che mi urlava contro. Spesso mi svegliavo con questi incubi e faticavo a riprendere sonno. Questa situazione perdurò tutto il tempo in cui stetti via. Quando tornai decisi di non farmi più coinvolgere in questa orribile spirale di odio e cercai con tutte le mie forze di evitare qualsiasi contatto con lei e la sua famiglia. Cercavo di uscire nelle ore in cui sapevo che era fuori e tornavo la notte quando presumevo che stesse dormendo. Nonostante questo, gli incubi continuavano. Tutte le notti, la mia vicina mi appariva, col volto in primo piano, stravolto dall’odio, sbraitando ferocemente, però dalla sua bocca non uscivano parole, ma solo un urlo bestiale e agghiacciante.
Naturalmente questo sogno, questo incubo ripetuto, mi suscitava angoscia e rabbia. Una rabbia tremenda. Come fossi stata morsa, appunto, da una cagna rabbiosa. Questa sensazione accompagnava tutta la mia giornata, avvelenandomi anche i momenti più belli. Oltretutto dormivo poco perché la sola idea che mi sarebbe apparsa quella orrenda figura, mi scoraggiava a chiudere gli occhi e a lasciarmi andare. In più, il ricordo della faccia deformata della mia vicina, mi tormentava anche da sveglia. Si sovrapponeva a quella delle persone che incontravo, inconsapevolmente le guardavo con diffidenza, le ritenevo ingannevoli e a volte le trattavo, come fossero lei, con freddezza e distacco. A poco a poco ero entrata nel tunnel dell’esaurimento nervoso.
Una mattina però svegliandomi, rincuorata da una notte senza incubi, ricordai un sogno molto singolare: al posto della faccia urlante della mia odiosa vicina, avevo visto un punto nero che si trovava dentro di me e mi roteava di fronte. Dopo averlo osservato brevemente, il punto si era involato prendendo una direzione precisa all’interno del mio corpo. Da molto tempo scrivo i miei sogni, è una pratica che ho iniziato quando sono stata in analisi diversi anni fa, trascrissi quindi questa visione onirica astratta, domandandomi cosa volesse comunicarmi.
Dopo alcuni giorni, improvvisamente, mi arrivò la risposta. Il mio cervello, avendo elaborato il sogno, decretò: si tratta di un neo. Mi controllai, non risultarono nuovi nei e quelli che avevo già erano assolutamente innocui. La cosa però mi mise in allarme e aumentò la mia ansia e la mia rabbia.
Una cara amica, a conoscenza di tutta la storia, che aveva compreso in pieno il mio stato d’animo, mi consigliò di mettere sul comodino, accanto alla mia testa, una drusa di celestite. Rispondendo al mio sguardo interrogativo, mi spiegò che la celestite o pietra degli angeli, aiuta a stemperare i rancori e la rabbia. Credeva fermamente nel potere delle pietre, aveva frequentato diversi corsi nei quali aveva imparato tante cose misteriose sui cristalli e mi parlava in modo molto convincente. Giunta a quel punto di nevrosi, decisi di tentare anche questa via e mi feci guidare da lei. Mi portò in un piccolo negozio pieno di druse, sfere, cristalli di tutti i tipi. Varcatane la soglia, mi sentii piena di una bella energia, una energia pulita, serena, limpida. Non come quella che mi accompagnava da molto tempo, data dalla rabbia. Comprai mezza drusa di un azzurro pallido, un po’ spento, con grandi cristalli. Da quel giorno dormii con la celestite accanto alla testa. Speravo che riuscisse ad attenuare e a dissolvere l’odio che provavo per la mia vicina, che ormai mi avvelenava l’anima.
Passarono quattro mesi e arrivò agosto, mi trovavo al mare su una bella spiaggia del Salento e uscendo dall’acqua notai una piccola colonia di nei, poco sopra la mia caviglia. Il colore era marroncino e assomigliavano a lentiggini ravvicinate. Trovai la cosa alquanto strana. Per quale ragione non me ne ero accorta prima? La formazione di queste lentiggini era in una posizione ben visibile. Oltretutto, io che detesto le calze di nylon e uso calzettoni di cotone, avrei dovuto accorgermene subito. Immediatamente mi ricordai dello strano sogno e mi ripromisi, quando fossi tornata in città, di farmi visitare da un dermatologo. Nella mia ignoranza non avrei dato particolare importanza a questi nei, perché conoscevo come dannosi solo quelli neri con forme anomale, quindi se non fosse stato per il sogno, non mi sarei preoccupata. Quando poi la dermatologa mi visitò, giudicando la formazione di lentiggini un melanoma, l’asportò mandando il materiale in laboratorio. Il risultato confermò trattarsi di melanoma. Per fortuna era stato preso in tempo e, considerato lo spessore, il protocollo prevedeva solo l’ampliamento dell’asportazione. Il sogno mi aveva evitato la rimozione dei linfonodi e la chemio. Comunque per dieci anni sarei stata sotto controllo periodico.
Ora ho una vistosa cicatrice bianca che ricorda come forma una bocca sorridente. In effetti non potrebbe essere migliore come monito: ricorda di sorridere, non farti mai più prendere dalla rabbia. Non farti più contagiare dall’odio.
Mi sono interrogata spesso sull’origine di questo brutto male che mi ha sfiorato superficialmente e del quale in sogno penso di aver visto la creazione della prima cellula. Non so se sia nato dall’odio e dalla rabbia della mia vicina o da me, che mi sono prestata a diventare la sua camera di risonanza. So solo che ora ho venduto quella casa e per mia fortuna non vedo più questa “signora” né di persona né in sogno.