
di Fabrizia Fedele
Mia madre è sopravvissuta.
Al cancro. E prima del cancro alla malattia e alla morte di mio padre.
Anche io sono sopravvissuta.
Nessuno mi aveva detto che un giorno della mia vita avrei dovuto condurre mia madre in un’enorme sala siderale, il limbo tra la vita e la morte, e lasciarla lì in custodia a medici e infermiere. Ho imparato che certe parole non si dicono, chemioterapia è una di quelle. Si dice terapia, oppure infusione.
L’ho vista ritornare, mia madre, stordita, ma intera, sorridente nel riconoscermi tra i figli e gli altri parenti prossimi che aspettavano i loro cari di ritorno dal limbo, stipati in una stanza che sapeva di chiuso, d’ansia e di sudore.
Quando, bambina, venivo accompagnata da mia madre al nuoto, in quello spazio asettico impregnato di cloro che mi dava il voltastomaco, non sapevo che avrei dovuto portare mia madre alla chemioterapia. Lei non lo immaginava di certo, nessuno lo immaginava.
Io ero felice di uscire da quella piscina di tortura per abbracciare mia madre che mi accoglieva con la merenda, un panino imbottito fatto da lei solo per me: felicità pura, meritata ricompensa.
Uno dei giorni in cui andavamo insieme verso il limbo, prima di passare attraverso la seconda porta che a me era interdetta, mia madre ha tirato fuori dalla borsa un pacchetto e me lo ha dato: dentro c’erano due piccoli tramezzini che aveva preparato lei per me, da mangiare nella lunga attesa, se avessi avuto fame. E così feci, pensando a quanto fosse surreale che io stessi mangiando un tramezzino preparato per me da quella donna che stava facendo la chemioterapia e che io avevo maledetto il giorno in cui le era stato diagnosticato il cancro al polmone.
Dopo mio padre, anche mia madre. E poi che altro sarebbe successo?
Nessuno lo sapeva e nessuno mi avrebbe detto niente.
Nessuno avrebbe potuto immaginare che avrei legato io stessa i polsi a mio padre ricoverato all’ospedale per impedirgli di togliersi la flebo e l’ossigeno.
Nessuno avrebbe mai lontanamente pensato che quell’uomo dall’intelletto arguto e dal temperamento impetuoso con cui mi ero confrontata tutta la vita, che da bambina avevo adorato con tutta me stessa, da adolescente avevo cercato di emulare spudoratamente, da giovane odiato, temuto e avversato, infine da adulta perdonato, accolto e amato, avrebbe finito i suoi giorni in un letto di ospedale, incapace di esprimere un pensiero e persino di concepirlo.
Nessuno di certo avrebbe potuto prevederlo.
I medici un paio di anni prima ci dissero soltanto che avremmo dovuto prepararci al peggio. Ma che cos’è il peggio, mi sono domandata innumerevoli volte. È forse non riuscire a convincere il proprio padre a lavarsi e vestirsi la mattina? Quello stesso padre che ti ha insegnato a stare al mondo, con cui sfogliavi i libri d’arte, con cui facevi le traduzioni di latino, che ti ha portato a Parigi o a Rio de Janeiro, quello stesso padre che ascoltavi rapita da ragazza quando ti parlava della Nouvelle Vague?
Il peggio è affidare il proprio padre a uno sconosciuto con la speranza che quello sconosciuto riesca a farlo lavare o a lavarlo lui stesso?
O forse il peggio è arrivare a cercare un istituto dove ricoverarlo.
Nessuno sa cosa sia il peggio e nessuno te lo dirà mai.
É così che ti ritrovi a legare al letto i polsi di tuo padre come se fosse la cosa più normale di questo mondo.
Guardo mia madre mentre esce dalla doccia. Il suo corpo sembra diviso a metà: il busto ossuto, ricurvo e nodoso come il tronco di un albero che abbia opposto resistenza alle intemperie, richiama i corpi macilenti degli ebrei deportati nei lager, mentre il bacino e le gambe sono magre ma tornite, ancora agili, esprimono ancora vitalità. I capelli radi e scoloriti svelano la forma del cranio e ne scoprono qualche pezzo. Incontro il suo sguardo vivo e pietoso.
Mia madre è sopravvissuta anche all’operazione al polmone, anche se non sembra più la stessa donna di prima.
Si è trasformata in un’altra specie, con un’esoscheletro resistente che racchiude un fragile corpo di crisalide.
Non ha toccato niente in casa: né i vestiti di mio padre e neppure i suoi oggetti. Ogni cosa è rimasta al suo posto: tutti i mobili e i soprammobili e persino le cose che lui aveva messo sottosopra negli ultimi giorni della sua vita.
Ultimamente mi sembra che possa ritornare da un momento all’altro.
Mi sembra un’eventualità possibile, come se fosse stato in viaggio, in trasferta da qualche parte. Un ritorno dopo una lunga assenza.
Allora devo forzarmi a ricordare il giorno del funerale: il pianto di mia madre, il corpo composto nella bara, l’elogio funebre.
Non può ritornare.
Perché è finito intrappolato in un’altra dimensione.
Proprio come quella famiglia felice: madre, padre e una bambina dagli occhi grandi e lucenti.
Finita per sempre in un’altra dimensione.
❤
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Commovente, aspra e piena di amore. Nessuno dovrebbe mai vivere il dolore eppure accade continuamente e l’unica cosa che si può fare essere lì , vicini e pronti ad accogliere le persone più importanti della tua vita, loro che ti hanno messo al mondo e che vorresti rimanessero sempre con te a proteggerti. Ma poi accade che sia tu a farlo e a restituire tutto il loro amore. Mi hai commosso. Grazie
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