
di Samantha Rapari
Ricordo bene il mio primo mestruo. Ero a letto con la febbre alta, mi alzai a fatica per andare in bagno e vidi il sangue. Chiamai mia madre perché ero tutta sporca e mi occorrevano un pigiama e un paio di mutandine puliti. Mi lavai, mi cambiai e me ne tornai a dormire. La febbre mi fiaccava e mi stordiva. Mia madre mi spiegò che ero diventata signorina, ma io avevo solo 11 anni e non riuscivo ad accostare la parola signorina alla mia età, sentendomi ancora poco più che una bambina. Pratica ed efficiente, mia madre mi mostrò dove teneva gli assorbenti e acquistò per me un odioso paio di mutandine nere con i bordi in plastica affinché non mi sporcassi durante il ciclo. Siccome non permettevano alla pelle di traspirare, al dolore delle mestruazioni si aggiungevano le irritazioni cutanee. Le buttai via dopo qualche mese. Mi disse anche che era meglio evitare i farmaci che, con i loro effetti collaterali, fanno bene a qualcosa e male a qualcos’altro. Lei stessa non ne prendeva mai e io, fedele a questa indicazione, sopportavo a denti stretti i dolori mestruali. Sebbene l’esordio delle mestruazioni coincise con una giornata passata interamente a letto, in seguito non mi diedi più questa possibilità: qualunque cosa dovessi fare nei giorni del ciclo, la facevo e basta, al di là delle mie condizioni fisiche. L’esempio di mia madre aveva sortito il suo effetto. Osservandola, avevo imparato che non ci si lascia ostacolare da un’inezia che si presenta mensilmente e con cui si dovrà convivere per anni, al di là dei dolori che porta con sè. Ho imparato che si resiste e si va avanti, che qualunque malore può essere tollerato, che una donna non si ferma perché la famiglia ruota intorno a lei, e non se lo può permettere. Mia madre si concedeva il lusso del riposo solo se aveva la febbre a 39, e nonostante questo, restava comunque a disposizione di marito e figli, obbligandosi ad alzarsi dal letto per prendersi cura di noi. Magari il pranzo e la cena non erano pantagruelici come al solito, ma comunque li preparava lei. Forza, resistenza e spirito di abnegazione sono l’essenza stessa della donna: questo è lo stoico insegnamento tramandatomi da mia madre, un messaggio ancestrale passato di generazione in generazione, da genitrice a figlia. Negli anni ho sviluppato una notevole tolleranza al dolore: credo di aver perso ormai la misura esatta del dolore, metto un velo tra me e il mio corpo quando soffre. Se fosse possibile, vorrei che qualcun altro lo abitasse e sperimentasse le mie sensazioni fisiche per valutarle al posto mio, che non sono più capace di farlo. Un po’ alla volta mi sono anestetizzata. Mi viene in mente l’immagine della donna che con coraggio e fermezza sopporta il dolore e a questo stereotipo si affianca quello dell’uomo che anche solo per un banale raffreddore si lamenta e si strugge in espressioni di sofferenza così atroce da sembrare in punto di morte. Il pensiero nasce allora spontaneo: l’uomo è solo una mammoletta. Del resto, siamo noi donne che conviviamo ogni mese con la perdita di sangue che ti fiacca, il mal di testa che ti stordisce, il dolore alla pancia, ai reni, alla schiena e alle gambe, forgiandoci e rafforzandoci nella sofferenza. Che ne può sapere un uomo di tutto questo? Non so quante volte ho riso insieme alle mie amiche per le espressioni di malessere fisico di mariti e compagni, considerandole esagerate e infantili, e ogni volta ci siamo gonfiate di orgoglio, sentendoci delle super femmine a confronto dei patetici maschi insofferenti e lamentosi, schernendoli per la loro pretesa di considerarsi il sesso forte. Poi ho intravisto la fregatura. Mammolette o meno, gli uomini esprimono liberamente il loro stare male e si prendono tutto il tempo di cui hanno bisogno per riposarsi e rimettersi in sesto, senza interruzioni e interferenze: non vanno al lavoro e se ne stanno a letto, senza preoccuparsi del ménage familiare, che invece incombe come un macigno sulle nostre teste anche quando stiamo male. Fino a qualche anno fa, fedele all’insegnamento materno, quando avevo la febbre mi concedevo qualche ora di riposo fintanto che ero da sola, per poi alzarmi dal letto e trascinarmi per casa al rientro della ciurma per occuparmi di loro.
Poi ho deciso di cambiare. Ora quando ho le mestruazioni rallento. Quando sto male mi fermo, mi riposo e mi prendo cura di me. Non ci sono per nessuno. Ho stabilito una buona volta che loro, la mia famiglia, possono cavarsela anche senza di me, e se la cavano davvero, hanno anche la premura di non fare troppo rumore per non disturbarmi. Nessuno pretende nulla da me quando sono alle prese con qualche malessere, io per prima ho smesso di spingermi a fare. A volte basta chiedere per avere e io ho imparato a chiedere innanzitutto a me stessa. Lo faccio per me, e anche per i miei figli: per Andrea, perché non si aspetti dalla donna che un giorno incontrerà che si sacrifichi per lui, per Virginia, perché abbia un esempio diverso da quello che ho avuto io.