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Photo by Eugenia Maximova on Unsplash

di Alice Valerio

Avevo uno strano rapporto con il mio corpo: volevo che mi ubbidisse.
Tutte le mattine quando mi alzavo dal letto, passavo davanti allo specchio dell’ingresso, poi davanti a quello della camera da letto di mamma e infine a quello del bagno, per vedere se anche per pochi istanti l’immagine del mio corpo sarebbe cambiata. Raggiunto il bagno, urinavo, poi togliendomi la camicia da notte, la canottiera e le mutande, tiravo fuori dal mobiletto del bagno, dove era nascosta, la mia più grande nemica, e non senza aver fatto un grosso sospiro prima di salirci sopra, mi pesavo. In base alla sentenza emessa da quell’oggetto che stampava sul suo vetrino trasparente numeri che non facevano sconti a nessuno, sarebbe dipeso il mio umore giornaliero. A preoccuparmi non erano solo gli specchi di casa, ma anche le vetrine dei negozi e i vetri delle macchine. Il lunotto posteriore, il parabrezza, la finestratura laterale che faceva da cornice alla carrozzeria metallizzata, da cui si poteva ricavare, anche se con qualche sbavatura la mia immagine, mi erano utili. Naturalmente anche gli specchietti laterali tornavano utili. Per me controllare continuamente il riflesso del mio corpo era diventato un bisogno. Anche prima del pranzo, lontano dalla merenda e dopo aver espulso tutti i liquidi possibili mi pesavo di nuovo, e così anche la sera, prima della cena. Ad ogni pesata giornaliera i grammi in eccesso venivano appuntati su un quadernino che tenevo ben nascosto da occhi indiscreti. Mi ero prefissata di avere un fisico asciutto e magro, non volevo far trapelare i miei conflitti interiori, che mi tormentavano per non essere nata alta e snella, insomma con un fisico da indossatrice, motivo per cui sottoponevo il mio corpo a continue frustrazioni. Continuavo infatti a non nutrirlo abbastanza durante i pasti, a digiunare per giorni interi, per poi ritrovarmi a cedere alle abbuffate notturne. Nonostante in alcuni periodi il mio corpo si trascinasse, non smettevo di sognare di sfilare su lunghe passerelle immaginarie. Quando mi guardavo allo specchio, la cruda realtà mi faceva vedere il mio corpo: alto circa un metro e sessanta, pieno di curve e con un viso paffuto che di certo non somigliava a quello di una indossatrice. Gli anni per crescere in altezza oramai erano passati, per cui mi rimaneva solo l’idea di assottigliarmi il più possibile, indossare dei vestiti lunghi che non mettessero troppo in evidenza le mie curve, calzare delle scarpe con il tacco molto alto, e sfilare con andatura sinusoidale per i lunghi corridoi di casa. Ormai mi ero organizzata: ad ogni mio passo c’era uno specchio che mi ritraeva, e da lì potevo controllare la mia disinvoltura nei movimenti, cercando di mettere avanti prima un piede e poi l’altro, imitando il più possibile le top model del momento. Infine, dopo lunghi periodi di pratica ebbi il coraggio di dire a me stessa che le mie “passeggiate” non somigliavano lontanamente a delle sfilate di moda. Mi chiusi in camera, sconfitta da questa consapevolezza, non volendo vedere nessuno. Solo mia madre riuscì a creare uno spiraglio di speranza, facendomi riflettere sulle mie caratteristiche fisiche. In effetti mia madre aveva ragione: al massimo potevo ambire a diventare una fotomodella, certo, con l’aiuto della fotografia, che avrebbe limato un po’ qua e un po’ là quelle sporgenze che tanto mi infastidivano per rendere il mio viso emaciato come andava di moda in quel periodo. E perché rinunciare a un bel paio di occhi verdi che tanto avevo desiderato, facendo utilizzare al fotografo uno di quei filtri colorati? Ma la magia più grande sarebbe stata quella che presa dalla giusta angolazione, avrei potuto ambire ad apparire molto più alta di quello che ero in realtà. Finalmente mi sentivo pronta per essere immortalata come una persona diversa.

Essere la vera me non era stato semplice: fin da bambina i miei genitori mi avrebbero voluta una bambina alta. Pur riponendo molte speranze in me, mi ricordavano continuamente che i centimetri acquisiti durante le tappe della crescita non promettevano bene, quindi menzionavano di continuo i miei 46 centimetri alla nascita, i miei 28 chili a soli 8 anni e per giunta, dopo una dispendiosa colonia al mare che mi avrebbe dovuta aiutare nella crescita. Neanche il secondo soggiorno estivo, quello dei 10 anni andò bene: non crebbi di un solo centimetro. Che delusione fu quella per i miei genitori, che tra l’altro venendo a riprendermi, si resero conto che guardando tra i ragazzi più alti, la loro figlia non c’era. Quante volte mi fu ricordato questo aneddoto, durante il periodo dell’adolescenza: “ti trovammo tra i bambini bassi”. Quanto odiavo ricordare quei momenti, ormai ero diventata una donna di media statura che si vedeva più bassa di quello che era realmente. Mi era rimasta solo l’idea di ambire a essere una persona diversa, intrappolata in un sogno che non era mai stato il mio.