
di Valeria Pritoni
Mi pare di vederli.
E’ il giorno di San Martino del novembre 1935, hanno caricato su un carretto le loro misere cianfrusaglie e sono partiti, i più piccoli sul carro e i più grandi a tirare.
Mio padre ha quasi sei anni, li compirà di lì a qualche giorno, ha freddo ma, come tutti i bambini, è distratto dalla novità del viaggio e lo vive come un’ avventura, quel trasloco.
L’atmosfera non è proprio allegra, ma lì dov’erano facevano la fame, quella brutta, quella che offusca i pensieri e fa lacrimare lo stomaco e gli occhi e adesso il suo babbo ha trovato un nuovo contratto per farsi sfruttare da un nuovo padrone, cinque parti del ricavato dalle sue fatiche andranno al Signor Venturi e una sola parte rimarrà a lui.
Lo sanno già che non basterà a sfamare tutti e che lo stomaco continuerà a lacrimare ma, passo dopo passo, in mezzo alla nebbia continuano il loro cammino. Ogni tanto incrociano altri carretti, è la giornata dei “tapini”, i padroni hanno fatto nuovi contratti sempre più a loro favore, profittando del bisogno di chi non ha scelta.
Mio padre guarda affascinato dal carretto: i filari delle vigne, un gatto sul ciglio della strada, l’erba arabescata dalla brina e gli alberi scheletriti e un poco paurosi. Il dondolio delle ruote che girano e l’ora mattutina gli fanno chiudere gli occhi e quando arrivano alla Codrona, che è la loro destinazione, dorme profondamente.
La mamma lo scuote, lo prende in braccio e poi gli dice di svegliarsi e di aiutare a trasportar roba che devono finire prima che venga notte.
La casa è misera come quella da cui proviene, ma mio padre è curioso di vederne ogni angolo e poi, meraviglia: dietro la casa c’è un grande prato e ci sono alcuni cavalli che pascolano!
Negli anni a venire, diventerà una specie di cavallerizzo, a forza di fare acrobazie in groppa a quegli animali per gioco e anche per lavoro.
Si socializza con i vicini e tra bambini è facile, ci si incanta davanti a una bicicletta, gli occhi si perdono dietro al cane e alle galline e insieme agli altri si corre e ci si rincorre.
La vera prova sarà il primo giorno di scuola, per oggi però non ci pensiamo, c’è tanto da vedere e da fare.
La scuola dista un chilometro e mezzo dalla Codrona, bisogna percorrere una lunga cavedagna fangosa e poi la strada principale. Porta addosso le vecchie scarpe di Renato, il fratello maggiore: hanno un buco nella suola e scappano da tutte le parti, ma non c’è altro da mettere ai piedi in quella mattina fredda e lattiginosa di nebbia spessa.
Per proteggerlo dal gelo, la mamma gli ha messo addosso una vecchia cappa che lo avvolge tutto e che arriva fino a terra, deve stare attento a non pestarla per non cadere.
La strada è lunga ma il mio babbo non ha fretta perché l’ansia e la paura di incontrare i nuovi compagni e la maestra lo vorrebbero trattenere. Avrebbe proprio voluto rimanere a casa ad aiutare suo padre nella stalla.
Invece, eccola là la scuola, un enorme edificio dai mattoni rossi e dalle enormi finestre, proprio dove la strada fa una curva e poi arriva alla chiesa.
Se si aspettava il peggio, il peggio è arrivato: appena mette piede dentro il cancello, decine di piccoli occhi lo guardano, qualcuno comincia a sghignazzare e poi, il ragazzino più grosso e più alto di lui almeno una decina di centimetri scoppia in una grossa risata e grida:” L’è arrivè, al prit dalla gabbana cal dis la mèssa ‘na volta la stmèna! “
(E’ arrivato il prete dalla lunga sottana che dice la messa una volta la settimana).
Subito parte il coro e tutti gridano la cantilena a squarciagola. La interrompe il suono della campana e l’arrivo sulla porta del bidello che urla: “La smettiamo?!”.
L’aula è enorme, il vociare dei bambini si mescola al tramestio provocato dalle cartelle che vengono appoggiate sui grossi banchi di legno e il tutto rimbomba in maniera inquietante.
Il sedile è alto e il babbo rimane con i piedi sospesi, arriva a malapena al tavolo da lavoro.
Sa di non saper scrivere ancora bene e di non sapere ancora leggere, teme le ire della maestra e il giudizio dei compagni.
Il gesso scalfisce la lavagna con un fastidioso stridìo, bisogna copiare. Faticosamente, passa la matita sul foglio, cercando di non pigiare troppo, come gli ha insegnato la mamma ma…la maestra se n’è accorta: scrive con la sinistra, la mano del diavolo. Non si può! Eccola che si avvicina, gli strappa la matita e gliela passa nella destra, poi con un lungo righello di vetro lo colpisce sulla mano colpevole. Il dolore e l’umiliazione gli fanno scendere le lacrime, proprio non riesce a trattenerle e vorrebbe sprofondare per non farsi vedere. Tutti lo hanno visto però.
Arriva l’intervallo e, nel cortile, il ragazzo grosso, ricomincia con la cantilena del “Prit dalla gabbana …” Altri lo seguono. Mio padre si fa ancora più piccolo, pensa: “non ci vengo più in questa scuola, domani sto a casa ad aiutare il babbo nella stalla”
Ma così non sarà. Ogni giorno un’umiliazione, ogni giorno un insuccesso, fino alla fine della prima elementare. La pagella dice che non è stato promosso. Nessuno si sconvolge, nessuno si meraviglia. A casa, la mamma gli dà uno scappellotto ma tutto finisce lì. E, tutto sommato, non dispiace neppure a lui: forse non andrà più a scuola così non sarà più preso in giro e umiliato.
L’estate passa in un baleno tra la caccia alle rane e le corse in groppa ai cavalli, i rossi tramonti e le albe nella stalla e, a ottobre, la scuola ricomincia.
La mattina del rientro, si trascina la grossa cartella di legno lungo la cavedagna con una fatica raddoppiata dal desiderio di fuggire lontano. Gli amici del cortile lo incitano e molto prima di quando vorrebbe, eccolo davanti al cancello.
Il solito ragazzone, ancora più alto e con un ghigno ancora più sfottente, lo attende. Lo guarda con disprezzo e poi apre la bocca per dare di nuovo inizio alla cantilena: “Al prit…”. Ma questa volta, non riesce a continuare, mio padre lascia cadere la cartella e come una furia, gli si getta addosso. Ha i pugni stretti e li picchia con tutta la sua forza contro il ventre del ragazzone, poi lo colpisce al volto e quello si ritira, fa tre passi indietro e fugge via.
Intorno mormorano, mio padre non capisce quello che dicono, si guarda i pugni, quasi non ci crede, raccatta la cartella e si avvicina alla porta d’entrata.
La classe è sempre la prima ma i bambini e la maestra non sono gli stessi.
Sarà che la mattinata si è aperta con un successo, ma tutto sembra più facile dell’altra volta. Lui è un poco cresciuto e adesso non è più il più piccolo, la maestra sorride e quando guarda quello che ha ricopiato sul quaderno gli dice: “Bravo!”.
E’ una maestra strana questa, a merenda mangia la polenta, fredda e nuda, come quella che servono a casa sua.
Piacevole da leggere, ricorda i racconti del libro Cuore .
"Mi piace""Mi piace"
Una bellissima descrizione di un momento della nostra storia. Si riescono a cogliere i sentimenti del bambino, rivissute dalle emozioni di figlia.
Grazie
"Mi piace""Mi piace"