di Rossana Zanichelli

Gli occhi seri e scuri, il timido sorriso illumina il tuo sguardo amorevole mentre mi tendi la mano. Ho l’età che avevi tu quando ero bambina, nonna.
E’ tanto tempo che ho smesso di essere figlia, troppo tempo.
Non ricordo il giorno esatto, come un piccolo buco nel tino colmo dell’infanzia; goccia dopo goccia si è svuotato e sono rimasta sul fondo a guardare verso il bordo senza una mano che mi spingesse verso l’alto.
La prima goccia fu sentire il tuo dolore cambiare, passando dalla furia di una vita subìta alla tristezza della resa.
Restavo sveglia a controllarti il respiro, percepivo l’ombra oscura pronta a coglierti e senza rendermene conto mi preparavo a vivere con un pezzo in meno di amore incondizionato.
Ho smesso di tingermi i capelli perché quello che ricordo in quelle brevi pause tra un ricovero e l’altro in cui finivi nel limbo del “brutto male” da non spiegare a noi bambini, era il bianco della ricrescita nei capelli.
Non riuscivo più a guardarmi allo specchio senza ricordarti nella morte imminente.
A chi mi critica più o meno velatamente o mi chiede spiegazioni dico semplicemente che mi ero stancata, a nessuno rivelo il suono sordo ed estenuante che mi segue da tutta la vita.
Ma un po’ è vero che sono stanca di passare il mio tempo a sentirmi conforme, stanca di sembrare più giovane, stanca di sentirmi in forma, stanca di sforzarmi.
Non lo capirebbero, come non capirebbero i miei occhi che si bagnano appena resto sola o i singhiozzi urlati quando il magma doloroso trabocca e risale, bruciandomi il petto, la gola, gli occhi.
Te ne sei andata giovane ma almeno non hai dovuto sentire quel trillo insistente nella notte di due anni dopo: non hai dovuto sentire dall’altro capo del telefono che tuo figlio era morto.
Il buco nel tino si è allargato ancora e sono sprofondata un altro po’.
Sarai rimasta sorpresa nel trovarti tuo figlio davanti, mi chiedo se sia stato per te un incontro gioioso o doloroso, cosa si prova nell’aldilà?
È strano che io dica questo, visto che non credo a nessun aldilà, ma chissà per quale motivo faccio fatica a credere che tu non abbia alcuna forma di esistenza.
Forse per la tua religiosità intrecciata ai riti pagani diffusi nella cultura contadina. Come quando d’estate, distese sull’aia scaldata dal sole, mi raccontavi che le stelle cadenti erano anime che salivano in cielo o quando vestivi di mistero un semplice albume nell’acqua che diventava veliero, la notte di San Pietro.
Hai colorato la mia infanzia di magie e terrori. Il giorno della tua morte, quando mia madre entrò nella tua camera per prendere dei vestiti da portare in ospedale e di colpo cadde il quadro appeso sopra il letto, quello di Santa Rita senza apparente motivo, spaventandola a morte.
Se ti chiedi come abbiamo vissuto il lutto per la morte di papà, posso dirti ciò che ricordo, oltre al buio che ha avvolto la mia adolescenza e mi ha chiuso in me stessa.
Mi ricordo seduta sulla sua auto, il giorno del funerale a respirare il suo odore di tabacco e dopobarba.
L’odore di tabacco: fu allora che iniziai a fumare e ripensandoci ora, ogni sigaretta fumata era un suo respiro.
Ricordo che iniziò a nevicare e la neve durò sino a marzo, ammucchiandosi sulla paglia che copriva l’aia e una nebbia fittissima si faceva strada sia fuori che dentro.
Ma quell’anno saresti diventata nonna per la quinta volta, del terzo maschio e lo saresti stata anche ventitré anni dopo, della terza femmina, tre maschi e tre femmine, come tre sono i figli che hai avuto.
Sei nipoti nell’arco di 36 anni, ma il fatto di essere la prima e averti vissuto accanto mi rende gelosa del tuo ricordo; ne rivendico il diritto in un muto risentimento persino verso chi indossa, ai miei occhi ingiustamente, gli oggetti che ti ricordano.
Adesso, che non sono più figlia da molto tempo e sono madre, capisco che la tristezza nei tuoi occhi non era solo per ciò che ti attendeva ma era anche la consapevolezza di chi abbandonavi e di come il tuo lasciarci ci avrebbe segnato.
Oggi che sono solo madre, anche della mia stessa madre, i miei piedi toccano il fondo del tino; allungo le braccia e spingo con tutte le forze ma a volte le ginocchia cedono e le braccia sbandano.
Oggi che il mio pensiero corre a te vorrei tanto per un solo minuto sentirmi figlia.
Bella l’immagine evocata dell’incontro tra madre e figlio, commuove anche chi non ha un sentimento religioso. Grazie!
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Grazie Valentina!
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