di Liliana Paganini
Città del Messico. Quando sono partita da Roma, il 5 marzo, la situazione non era ancora precipitata. A Fiumicino nessun controllo particolare, mi aspettavo che mi misurassero la febbre e, considerata la mia stanchezza, ero preoccupata che mi venisse. Al gate, in attesa, solo alcuni asiatici vestivano una mascherina. Un signore straniero chiede se può sedersi a fianco a me. Gli rispondo di sì. Dopo poco tempo che mi sta accanto inizia a starnutire copiosamente. Con un salto mi sposto lontano. Penso: “Ci manca pure che questo mi attacchi il virus! E come faccio con la mia mostra?”. Una signora, che siede dall’altro lato, gli offre un kleenex. Mi sento un’incivile! Sull’aereo siamo pochissimi. Io avrei un posto vicino al finestrino. Sulla stessa mia fila un signore chiede se può spostarsi dove non c’è nessuno. Grazie al corona virus, il viaggio è comodissimo, penso. Nessun controllo nemmeno a Parigi, dove ho cambiato aereo, per Città del Messico. Durante le 12 ore di viaggio mi chiedo se una volta arrivata a Città del Messico mi metteranno in quarantena. Mi dico: “E’ un guaio, si dovrà rimandare l’inaugurazione di almeno 15 giorni!” Per fortuna, l’Economy Plus è praticamente vuota, sono nel corridoio centrale unica nella mia fila, posso contare su una distanza di sicurezza di almeno 2 metri. Socializzo a sinistra, c’è una signora olandese sposata con un ingegnere tedesco che lavora a Sonora, abita a Chivasso, insegna lingue e non si preoccupa delle misure che si stanno adottando in Italia. Da molto tempo tiene corsi online e anche in Messico, grazie al suo computer e ad una buona connessione, continuerà il suo lavoro. È seduta in uno dei due posti accanto al finestrino, rispetto a me un po’ sfalsata. Mi rivolge la parola in italiano, dopo aver sentito qualche scambio di battute che ho con un tecnico dell’Eni, che si trova nella fila davanti a me, che torna in Messico, dopo una vacanza in Italia, preoccupato per come sta lasciando la moglie e il figlio piccolo. Viaggio confortevole, il personale di bordo dell’Air France non mi tratta come un’appestata, questo era un altro dei miei timori in materia di viaggi in questo periodo, venendo da un’Italia infetta e accusata di contagiare il mondo. Una delle hostess è di origine italiana e parla bene la lingua. Socializza a un metro di distanza. Mi sposto per andare in bagno e attraverso l’Economy. Lì sono tutti accalcati. C’è un gruppo di studenti d’arte che dipinge, mi chiedo come facciano gomito a gomito… Torno al mio posto considerando che sono passata in mezzo a file gremite, sfiorando teste e spalle, non certo a una distanza adeguata.
Per fortuna il tempo passa in fretta tra film, pasti e riposini (sono andata a letto alle 2 di notte e mi sono svegliata alle 4!).
Alle 17, ora locale, atterriamo a Città del Messico. Sbarco, le solite formalità, compilare un modulo che una parte dovrò consegnare e l’altra conservare fino al rientro. Per fortuna l’Air France me lo ha fornito in aereo e ho avuto già modo di completarlo. Come al solito un grande assembramento al tavolo dove, chi non lo ha avuto in aereo, può trovarlo e appoggiarsi per scrivere. La fila ai controlli è serratissima. “Si vede che i francesi non hanno l’epidemia in casa” penso, considerando la triste situazione in cui versa il nord d’Italia.
Cerco disperatamente di distanziarmi e mi chiedo: “Ora, ai controlli passaporti, qualcuno mi misurerà la febbre, considerando che sono italiana? È vero che sono residente a Roma, ma chi avrebbe potuto impedirmi di fare un week-end a Milano da una mia cara amica o a Monza dai miei cugini?” Per fortuna il poliziotto che esamina il mio passaporto non fa una piega. Mi chiede solo se è la prima volta che vengo in Messico. Rispondo: “No, sono già stata qui qualche mese fa, per la mia mostra di foto”. Mi sorride e mi fa cenno di passare.
Arrivo al nastro della riconsegna bagagli con l’ansia, che nello scalo, le mie valigie siano partite per qualche altra destinazione. Invece le vedo passare tra le prime e mi faccio largo in un incredibile capannello di gente che parla alternativamente francese e spagnolo. Considero che deve trattarsi di almeno due gruppi turistici, valutando l’età media dei partecipanti, un numeroso gruppo di pensionati francesi partiti alla scoperta dell’America e, dall’altra parte, un gruppo di età mista di messicani che ritornano in patria. Certo nessuno di loro ha mai sentito parlare del Corona Virus, giudicando da come si accalcano gli uni sugli altri, senza ritegno. Finalmente, passata anche indenne la dogana, esco e vengo accolta dalla mia amica che mi ospita, che mi abbraccia senza nessuna paura. Questo mi conforta, non sono dunque un’appestata e qui, nonostante sappiano la situazione che c’è in Italia, prevale l’abitudine affettuosa del popolo messicano. Ma in mezzo alla contentezza per una accoglienza così premurosa, compare in me il dubbio e penso: “E se io fossi stata infetta? O comunque se non lo fossi stata partendo e mi fossi infettata durante il viaggio? Oddio, non vorrei, come i conquistadores spagnoli, portare io l’epidemia in Messico!”. E cercando di distanziarmi, per prudenza, salgo su un grande Suv, considerando, che se non altro, le distanze saranno quelle di sicurezza.
Città del Messico. Arrivo alla fondazione Leo Matiz, dove ho affittato una comoda stanza con bagno. Leo Matiz era un grande fotografo colombiano, nato nel 1917, che si era trasferito per diversi anni in Messico ed era entrato in contatto con Frida Kalho e Diego Rivera. In tutte le mostre su Frida Kahlo che ho visto, si possono ammirare le sue foto, si può dire che i ritratti più famosi della pittrice messicana sono opera sua. La fondazione si trova in un quartiere residenziale di Città del Messico, tutto formato di villette con giardino e di silenziose stradine alberate. La villa che ospita la fondazione, apparentemente modernissima, è un vecchio edificio, completamente ristrutturato. La stanza che ho prenotato la conosco bene, perché sono stata già qui per diversi mesi nell’ultimo anno e mezzo.
Si affaccia su una stradina laterale e dà su altre villette con relativi giardini. Oltre alla stanza da letto, ho un’altra stanza con un grande tavolo per lavorare e una bellissima grande sala da bagno. Sistemo le mie valigie e vado a dormire. Il giorno dopo è venerdì, dovrò iniziare ad organizzarmi per il mio spostamento a Guadalajara.
Come mi succede regolarmente, quando arrivo in Messico, per i primi sette giorni mi sveglio molto presto, intorno alle 3 o 4 del mattino, che corrispondono alle 10 o 11 del mattino in Italia. Il fuso orario si recupera un’ora al giorno, questo lo so e mi rassegno. Di solito utilizzo quelle ore super mattutine per telefonare a casa. Così dopo le 9, ora locale, alla fine di una lauta colazione di tipo inglese, mi metto alla ricerca di un mezzo per andare a Guadalajara. Scarto l’idea di prendere un aereo, non solo non mi sento sicura dei controlli anti Covid 19, ma dovendo portare tutte le foto della mostra e 16 cornici, sarebbe oltremodo scomodo. Treni non ce ne sono. Mi parlano di un pullman che ci mette 7 ore. Non ci penso neanche a viaggiare per tutto quel tempo gomito a gomito con chissà quanta gente! Rimane solo un’opzione: affittare un’auto.
Dopo aver fatto una rapida ricerca su internet, mi rendo conto che costano molto di più che in Italia. Però questo mi risolverebbe il trasferimento delle opere e il viaggio mio, della mia amica e della sua segretaria. Quindi decido per il noleggio.
Il lunedì mi presento all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico dove la mia mostra è rimasta dal 14 di novembre al 12 gennaio e dove devo ritirare le mie foto per portarle a Guadalajara. Vengo ricevuta secondo il protocollo italiano del momento, cioè a tre o quattro metri di distanza. Qui se potessero mi misurerebbero anche la febbre. Vengo dall’Italia e sono a rischio. Improvvisamente mi sento come un’appestata. Ma capisco il problema. Mi chiedo solo se a Guadalajara alla Società Dante Alighieri si comporteranno allo stesso modo. In tal caso sarà un poco complicato montare la mostra…
Il mattino seguente affitto un’auto, una Chevrolet, tipo piccola Suv. Veramente alla Hertz, hanno tentato di rifilarmi una vecchia Volvo, enorme, a sette posti, lunghissima, così lunga che mi sono chiesta come avrei potuto prendere una curva su una carreggiata che non fosse di un’autostrada. Qui, in territorio americano, si usa così. Ho spiegato al ragazzo del noleggio, che a Roma non esistono auto di quella dimensione. Che, nei vicoli del centro storico, resterebbero incastrate. Che avrebbe avuto sulla coscienza chissà quanti incidenti e pestaggi della sottoscritta, da parte di proprietari di auto parcheggiate vicine che non sarei riuscita ad evitare di strisciare o peggio di ammaccare. Dopo un lungo pianto greco, debitamente tradotto da Paula, la segretaria della mia amica, il ragazzo, guardandomi come si guarda una povera incapace, si convince e mi offre una Chevrolet nuova di zecca, che tutto sommato è un piccolo Suv, ma con regolari cinque posti e con il bagagliaio giusto per trasportare la mia mostra e le nostre valigie. Solo dovrò attendere un paio d’ore. Mi rassegno e attendo fiduciosa. Nel frattempo firmo una quantità di moduli. Orgogliosa, tiro fuori la mia patente internazionale, fatta apposta per l’occasione. Non sortisce il risultato sperato, mi chiede se ho anche quella italiana. Si vede che dopo il pianto greco non si fida, pensa che io non possa avere il permesso di guida.
Vorrei aggiungere la patente della mia amica e quella di Paula al contratto, ma nessuna delle due ne possiede una in corso di validità. Mi rassegno all’idea che non potrò avere un cambio alla guida e mi rendo conto che non tutte le donne in Messico possiedono un’auto.
Finalmente, alle 11 mi accingo a portare fuori dal parcheggio della Hertz la mia nuova auto, provvista di cambio automatico. Naturalmente non ho mai posseduto una vettura col cambio automatico e per abituarmi mi ci vuole un po’. Mi allontano sotto gli occhi disperati del ragazzo che mi vede alternativamente inchiodare e accelerare e, leggo nel suo sguardo che si pente di aver messo così a repentaglio un’auto della sua flotta. Non sa, che dopo appena duecento metri, mi sono già abituata e mi sento già un misto tra Thelma e Louise e una Nuvolari esaltata.
Con Paula passiamo a prendere i bagagli e ci facciamo scattare una foto dal vigilantes della villa per immortalare la partenza.
E così, martedì 10 marzo, sono partita all’avventura, per raggiungere Guadalajara, munita di un telepass ricaricabile messicano (sembrava opportuno per evitare file chilometriche al casello).
Dopo aver collegato l’Iphone di Paula alla Chevrolet per navigare verso l’autostrada, immergendomi nel traffico bestiale di Città del Messico, premo l’acceleratore. Questa auto munita di cambio automatico mi ricorda vagamente quelle automobiline che si trovavano all’autoscontro dove mi portava mio nonno a giocare, come allora, ho solo due pedali: l’acceleratore e il freno. Anche se non mi ci è voluto molto ad abituarmi a questa nuova guida, tuttavia sono tesa e sto molto attenta. È vero che ho preso un’assicurazione Kasko che ripaga anche la rottura dei cristalli, (sembra che sia la migliore in commercio). Non vorrei però scoprire cosa non ripaga e quindi cerco con tutte le mie forze di evitare incidenti. E in questa città così caotica dove, a confronto, Napoli prende la nazionalità svizzera, non è semplice. Mi ci vuole circa un’ora per uscire dal centro abitato e finalmente arrivo all’autostrada. Se non fosse per il varco del casello, non me ne sarei neanche accorta. Niente a che vedere con le nostre. Qui i caselli che si passano sono innumerevoli! L’autostrada, mi spiega Paula, è comunale. Ogni comune applica le sue tariffe. Capisco che senza il telepass si corra il rischio di non arrivare mai. In alcuni casi trovo anche tre corsie, ma Il fondo stradale assomiglia a quello di una strada bianca in un campo minato. Il tratto Salerno – Reggio Calabria di quando c’erano i lavori (che sono durati almeno 15 anni) era un velluto da accarezzare, a confronto! Mi colpisce che ci siano tanti segnali per indicare un percorso per le auto che non riescono a frenare. Scopro che hanno corsie privilegiate e diritto di precedenza. Mi rendo conto che queste corsie finiscono inevitabilmente per deviare sulla destra e si concludono in una strada laterale piena di sabbia per attutire e rallentare la marcia. Mi chiedo: non sarebbe meglio controllare regolarmente i freni? Di queste piste ne conto tante, una ogni 5 o 10 chilometri. Invece corsie d’emergenza non ne vedo, anzi alla mia destra c’è un gran traffico di pedoni e di biciclette, che vanno pure in senso contrario. Senza parlare delle tre o quattro volte che mi trovo con intrepidi pedoni che scavalcano il guard-rail e attraversano correndo l’autostrada! Tutta questa concentrazione e attenzione che pongo per non investire a destra e a manca pedoni, ciclisti e spericolati mi fa sentire il bisogno di ricaricarmi almeno con un caffè, ma caso strano, i posti di ristoro sono rari. Dobbiamo aspettare, la mia compagna di viaggio mi segnala che ci troviamo in una zona in cui è pericoloso fermarsi. Sembra che Michoacán sia una regione ad alta densità criminale. Dobbiamo uscirne e poi potremo ristorarci. Per carità ci manca pure che mi rubino l’auto con tutte le mie opere dentro! Finalmente, dopo un centinaio di chilometri, Paula m’indica che vede un caffè in lontananza. Mi affretto a spostarmi sulla destra e approdo a un luogo di ristoro. Anche qui, rivaluto i nostri Autogrill con la loro presenza capillare, che paragono a Chez Maxime rispetto a quello in cui mi ritrovo: un luogo un po’ sudicio, in cui ci sono una serie di macchine, per me misteriose, per prendere un caffè self service. Paula mi soccorre e riesco a stringere un mezzo litro di caffè in uno di quei bicchieri di carta, dove da McDonald ti servono la Coca Cola gigante. Questa è la misura standard che contempla anche l’espresso. Se posso, devo fare un mea culpa per tutte le volte che ho criticato i costi e l’organizzazione delle nostre autostrade.
In uno degli innumerevoli tratti in cui cambia l’amministrazione comunale e quindi la gestione dell’Autostrada, ci ritroviamo in un tratto di strada che mi ricorda le nostre Provinciali, attraversiamo un centro abitato e, scorgiamo sulla nostra sinistra una pattuglia ferma della polizia locale. Paula mi avverte, se ci bloccano, che lasci parlare lei. La polizia qui può essere pericolosa con gli stranieri, potrebbero chiedermi soldi per lasciarci proseguire. Naturalmente due donne sole in una vettura nuova di zecca, non passano inosservate e il poliziotto, panciuto e attempato, non se le fa scappare di certo e ci intima di fermarci. Io sfodero il mio migliore sorriso, ma mi comporto da sordomuta. Alle sue domande risponde Paula, con molto savoir faire. Capisco che chiede di vedere i documenti dell’auto, apro il cruscotto e glieli porgo. Conoscendo la prassi italiana, mi dico: “Ora sto fresca, anche se non parlo, la patente internazionale mi rivelerà lo stesso!”
Ma per fortuna, gli basta il libretto della Chevrolet. Più che a controllarci sembra interessato a intavolare una conversazione. Con Paula, perché io, a parte sorridere, di più non faccio. Comunque la mia compagna di viaggio sfodera una parlantina notevole! Racconta che andiamo a Guadalajara. Sentendo forse l’accento di guadajalteco di Paula, il poliziotto chiede se siamo state a Città del Messico per la manifestazione dell’8 marzo. Nella manifestazione ci sono stati aspri scontri, le forze dell’ordine hanno lanciato gas lacrimogeni per disperdere le partecipanti. Ovvio che no, noi siamo due sorelle, andate per una mostra e infatti abbiamo, come si può vedere, i quadri accatastati nel bagagliaio. Io faccio la parte della sorella timida, abbasso gli occhi e continuo a sorridere imbarazzata. La balla delle sorelle il poliziotto se la beve tutta, d’altronde siamo entrambe bionde, occhi a mandorla, da sedute non si nota che sono molto più alta, e decide di lasciarci proseguire. Riparto con prudenza e tiro un sospiro di sollievo.
Ci viene da ridere e iniziamo a cantare. Paula, canzoni messicane classiche, io mi lancio su quelle napoletane. Ormai abbiamo percorso almeno i due terzi del viaggio. Ora costeggiamo un bellissimo lago, molto grande, con qualche isola dentro. Un luogo fantastico! Riesco a distinguere un gruppo di uccelli, delle specie di gru. Davanti a noi un camioncino scoperto porta a spasso un cavallino bianco che si gode il vento scuotendo la criniera, sullo sfondo, l’autostrada ci regala un tramonto bellissimo.