di Valeria Pritoni

johnny-cohen-_vMb6AeYuzE-unsplash
Photo by Johnny Cohen on Unsplash

Era una giornata tiepida, di primavera avanzata, in cucina, lavavo l’insalata. Tenere le mani nell’acqua fresca era piacevole, il verde delle foglie riposava gli occhi. Mio padre rientrò e sulla porta lo vidi terreo, i lineamenti contratti e lo sguardo allucinato dietro le lenti degli occhiali. Si sedette sfinito e con un filo di voce mi disse: “Sono stato in ospedale a parlare con i medici. Mi hanno detto che la mamma ha un cancro al pancreas con metastasi al fegato, opereranno, ma non ci sono speranze, ha pochi mesi di vita”. Sentii un dolore fortissimo, dal basso fino alla gola, mi salirono le lacrime agli occhi e cominciarono a filtrare inarrestabili per ore senza che riuscissi a fermarle. La sera, quando andai in ospedale, avevo gli occhi rossi, mia madre se ne accorse subito ed io inventai un improvviso attacco di allergia.
Durante tutto l’anno in cui durò la sua malattia, io ebbi il problema di trattenere le lacrime, non dovevo piangere di fronte a lei e le ingoiai durante le quaranta notti in cui la assistetti dopo l’intervento, durante gli interminabili giorni in cui la vidi sofferente guardare fuori, attraverso i vetri della finestra in quell’inverno senza pace e la sentii mormorare che aveva perso ogni speranza, le ingoiai nei momenti in cui mi stringeva la mano, ancorata alla flebo e pure quando incontrava il mio sguardo con il suo, dolce, nonostante il dolore. Le ricacciai indietro il giorno in cui, arrivando in ospedale, la trovai piangente e angustiata perché era appena passato il parroco che, al suo rifiuto di fare la comunione, le aveva ricordato quanto fosse vicina alla morte e che nell’aldilà si sarebbe pentita di non avere chiesto a Dio perdono per i suoi peccati. Quella volta, le lacrime diventarono rabbia: protestai e chiesi a quell’uomo di non avvicinarsi più al letto di mia madre.
Le ingoiai durante una breve vacanza in montagna. Scappavo a camminare per i prati quando vedevo che soffriva e provavo a respirare a lungo prima di rientrare per prepararmi a resistere al pianto.
Le ingoiavo quando non riuscivo a farla mangiare, allora andavo a raccogliere le verdure fresche nell’orto per fare il minestrone, l’unico cibo gradito.
Poi venne il giorno in cui non ci riuscii. Era mattina presto, come al solito, mi recai in ospedale per aiutarla nelle abluzioni e per il cambio della biancheria. Era estremamente affaticata e più sofferente del solito. Si appoggiò sul water ma non fu più in grado di alzarsi, io provai a sostenerla ma non ebbi la forza e dovetti chiamare l’infermiera. Fu quel senso d’impotenza a far sgorgare tutte le lacrime che avevo trattenuto fino a quel momento, un fiume inarrestabile che provocò un sentimento ancora più doloroso: il senso di colpa per essermi mostrata così, incapace, disperata, drammaticamente inadeguata alla situazione. Mia madre entrò in coma pochi minuti dopo e rimase in quella condizione tre giorni, poi spirò. La vegliai accompagnata da quel senso di colpa per la mia impotenza e inconcludenza, per averle mostrato in maniera così evidente che la situazione era disperata e anche io ero disperata.
Ora piango tutte le volte che penso o parlo di mia madre: sgorgano tutte le lacrime che ho trattenuto durante l’anno più difficile della mia vita.