di Lorenza Cianci

Io ti dico: uno, due, tre. Tu, poi, spalanca gli occhi. Io scatto.
Ed eccoti, subito dopo, a comporre prove di resilienza al sole, a strizzare gli occhi, a portare la mano alla fronte sottile sottile, come un sergente. Signor sì, signora! Tu, stampata al portone di Davia Bargellini, il museo bolognese di arte industriale. Di quasi cinquanta scatti, uno era venuto con il buio totale nella macchina fotografica, e tu sembravi una pietosa Antigone a teatro. L’ironia tragica stava nella tua espressione, tormentata dal fascio di luce che ronzava intorno al tuo naso. E dall’imbarazzo del piano americano per cui ti avevo chiesto di posare.
Quando moristi, era quella la foto che avevo scelto per te a effigie del tuo eterno ricordo. Ma i tuoi parenti materni non ne vollero sapere, e ne presero una di quelle che il tuo primo marito ti fece nel giardino, intorno ai suoi alti banani secolari. Forse, anche tu avresti approvato. Ma il ritratto non ti rendeva per niente onore. Mentre io volevo che tutto il tuo viso venisse verso di me, dal buio alla luce (gli occhiali a goccia, i fili di rame dal tuo caschetto, il fard rosa scintillante che incavava le tue guance), gli altri desideravano meglio ammirarti da lontano, statuina circondata dalle piante esotiche più improbabili che si potessero trovare nelle campagne di Granarolo dell’Emilia, in una prospettiva schiacciata da un teleobiettivo su una entry level. In quella foto, tu sembravi una tigre mesta e pudica in una posa policletea, una di quelle figurine che si vedono nei prati naïve del pittore Rousseau.
Il tuo primo marito era alto ed aveva un occhio morto, rimpiazzato da un cristallino di vetro che guardava fisso sull’attaccatura dei tuoi capelli, sulla tua precoce ricrescita bianca. Era agronomo ed era vissuto per un certo periodo nelle campagne di Alvesta, nella Svezia meridionale. Certo, sì, io lo detestavo. Ma sicuro, nemmeno lui amava te. Da lui, avevi avuto un figlio, il piccolo Manuelito, che ama i foulard colorati dall’età di quattro anni, li colleziona dai sei, e ora (benché, credo, tu non ne sia più al corrente) ne produce di tutti i tipi per passione e mestiere, insieme ad alcune mascherine FFP2 rivestite con ricami a richiesta e paillette. Un giorno bussai alla porta del suo atelier e quando passai il corridoio lo vidi che lavorava merinos, uncinetto 5 mm, a maglia bassissima. Ed è lui, all’anniversario della tua morte (benché, credo, tu non ne sia più al corrente) che prepara i ninnoli di seta a forma di glicine rosso, il tuo fiore preferito. Io lo amo, come amavo te, e la tua libertà emotiva.
Amavi i carillon. Alla comunione di Manuelito ne avevi ordinati 50 per le bomboniere: minuscoli tintinnabuli che fecero strozzare di pianti mia figlia neonata. Al punto che, finita la festa e tornata a casa, chiusi il mio nell’armadio dove stava il contatore del gas: perché nessuno lo vedesse, si incuriosisse, lo mettesse in moto. Adesso è lì, nel punto più alto della casa, in vista, insieme al biglietto di American beauty in 4 k che eravamo andate a vedere un mese prima della tua scomparsa, e il libro dei Fratelli Karamazov, nient’altro che l’oggetto della nostra ultima chiamata.
Io ti amavo come neanche una sorella si può amare. Eravamo cresciute insieme e, prima di noi, le nostre mamme erano state buone amiche. Tuo papà aveva l’unica merceria di quel paese di quattro gatti dell’entroterra salentino, e ti vidi per la prima volta quando accompagnai la mia mammana Nanda a comprare un adesivo di stoffa con disegnato il Pulcino Calimero, per coprire un buco che avevo da un mese al grembiule blu della scuola, all’altezza del cuore. Tu armeggiavi sicura tra le spille da balia, e aggiungevi perle bianche agli spilloni che pungevano un grosso cuscino. Mi consigliasti tu, di prendere Calimero, perché nessun’altra bambina l’aveva ancora scelto.
Mi fidavo di te e della tua parola neanche fossi una santa. Io, più insicura, ti giravo dietro come l’ombra lunga del primo pomeriggio. Quando compimmo diciotto anni, iniziammo a frequentare il Gibó e io mi iscrissi all’Accademia, mentre tu a scienze Erboristiche. Conoscesti lì, il tuo primo marito. Io passavo di fiore in fiore perdendomi spesso, per ritrovarmi poi, infine, e sempre, nel tuo abbraccio consolatorio.
Abbiamo avuto entrambe un solo figlio, a dieci anni di distanza. Mi ricordo che il giorno della nascita della mia piccola mi tenevi la mano, e quando mi svegliai mi dicesti tu che era nata bambina. Mi portasti una vestaglia ricamata e, per evitare che risultasse troppo corta, ci avevi aggiunto all’estremità un plissé. Mia figlia si chiamò Diana, come avresti chiamato tu la tua, se fosse nata a te. Manuelito aveva 9 anni e undici mesi.
Per tutta la durata della nostra amicizia (benché tu, credo, non ne sia più al corrente) abbiamo camminato insieme mute e distinte nelle nostre individualità solidali come due eliche di una girandola. E quando mi lasciasti, non lasciasti un vuoto. Sentii, piuttosto, di aver ricevuto un battesimo di fuoco: dovevo imparare a vivere un’altra vita, un’altra infanzia. Quella biologica, che avevo già vissuto, era con te. E non esisteva ricordo, della mia vita bambina, che non fosse con te.
Scatto. E tu esci dal buio verso la luce. Io imparo, invece, dalla luce, a immergermi in una placenta buia, senza storia né memoria. Un oblio sconosciuto. Da cui spero, un giorno, di risorgere.