di Carla Colonnelli

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Arrivava solitamente la domenica mattina durante la passeggiata con Ettore nel parco, mani nelle tasche dei jeans portati al di sotto delle mutande Armani, sguardo verso il basso. Fino al momento in cui veniva travolto dal mio cagnone le cui feste e slinguazzate sul viso attiravano l’attenzione degli amici di Ettore e dei loro padroni. Poi si avvicinava a me, lunghissimo e, l’orecchino scintillante e i capelli il cui colore spesso cambiava: “No, Luca, blu elettrico no!”, gli gridai una domenica quando apparve mascherato da puffo gigante. “Hai detto bene, brava! Blu elettrico è il titolo della nostra ultima canzone. Vieni a vedere il concerto sabato sera?”. Cantava in un gruppo punk rock. Scriveva testi strampalati e allucinati. Dopo averli letti lo fissavo. “Guarda che non ero fumato, giuro!”, mi rispondeva leggendomi nel pensiero. Consumavamo delle ricche colazioni a casa dove riacquistava l’espressione placida di quando era bambino con la sua giovane testa color pastello. “Hai bisogno di soldi?”, chiedevo. “Sempre”, rispondeva a bocca piena. Lavorava, ma quando pareva a lui. A 16 anni, quando lo obbligavo ad andare a scuola, era già l’asso delle “vetrine” bolognesi per antonomasia. Era molto ricercato dai commercianti di abbigliamento e di scarpe del centro. Ma lui rispondeva solo quando ne aveva voglia: “Oh, insomma! Non è una cosa che si può fare così, a comando!”. In effetti il successo sembrava meritato: quando passava lui, la disposizione dei capi di abbigliamento veniva considerata dagli esperti assolutamente originale e attira-clienti. Io non vedevo differenze con le altre vetrine, ma le mie amiche spendaccione si accorgevano immediatamente se una vetrina l’aveva allestita lui. “Ma guarda te quel manichino vestito di stracci che sembra uscito da casa Chanel”, diceva la Rita che non usciva di casa senza firme addosso. “E’ proprio vero che nasciamo con le attitudini ben definite. Non può certo aver imparato da te il gusto per la moda”, diceva Bea che di mestiere faceva l’assistente sociale. Io intanto gongolavo, contenta di aver comunque trasmesso un po’ di pace in quella piccola anima.
A volte mi piombava nel bar dove lavoravo. La proprietaria, la Serena, di nome e di fatto: petto in fuori, tanto, e nasino all’insù in seguito ad un felice investimento di rinoplastica, aveva, ammortizzato i costi operatori con il notevole aumento di consumazioni da parte dei pensionati della zona. Ricordo ancora come il suo décolleté migliorò l’umore degli anziani comunisti all’uscita del congresso della Bolognina. “Certo che se l’Achille fosse passato prima per un caffè, magari sarei riuscita a convincerlo di non fare tutto quel casino!”, diceva la Serena maliziosa. Non so quanto Occhetto potesse essere sensibile alla procacità della mia datrice di lavoro, ma era veramente difficile resisterle. Anche Luca era legatissimo a lei e, praticamente, l’avevamo cresciuto insieme. In fondo, il fatto che fosse stato concepito da me e non da lei era stato veramente un caso. Cioè, in quel periodo andavamo a letto con lo stesso uomo che poi era il mio ma anche il suo. Però era più mio perché era il mio fidanzato e quindi il suo amante.
La Serena era stata sposata per tutto il tempo che impiegò nei tentativi falliti di rimanere incinta attraverso metodi più o meno naturali ma sicuramente tutti molto dolorosi. La coppia non era riuscita a volgere la propria complicità di potenziali genitori che immaginano il colore degli occhi e dei capelli del loro futuro bambino in un altro tipo di condivisione che doveva necessariamente avere a che fare con i loro desideri. “Oh cocca, che ti devo dire! A me piaceva il mare e a lui faceva schifo, per me il bar non si tocca e lui lo voleva vendere”, ripeteva soprattutto quando finiva una delle continue storie strampalate in cui si gettava a capofitto. Anch’io non sono molto fortunata in amore. Dopo la nascita di Luca poi la situazione è precipitata, anche perché dietro l’angolo c’era sempre la possibilità che me lo togliessero. Luigi mi salvò da questa possibilità. Solitamente i miei fidanzati non frequentavano casa, anche perché la Bea mi teneva d’occhio. Ma Luigi era stato un’altra cosa. Luca era molto piccolo e Luigi molto grande. Divennero padre e figlio. Siamo stati una piccola famiglia per qualche anno, poi Luigi mi lasciò per un’altra che poi sposò. Fu così che io e Luigi vivemmo come due genitori separati in regime di famiglia allargata, con vacanze estive incluse. Con il benestare della Bea. Anch’io, nonostante le tette e il naso non potessero competere con quelli della Serena, ho avuto un discreto successo con gli uomini. Quelli delle altre, però. Io e la Sere non capivamo perché i “liberi” non si interessassero a noi. Una volta siamo persino andate da una maga e quella, appena ci vide, ci apostrofò così: “Ecco due belle ragazzotte in cerca di uomini liberi!”. Girammo i tacchi e ce ne andammo, offese da tanta capacità sensitiva.
Luca era praticamente cresciuto nel bar. Veniva a volte solo, altre con un amico e il più delle volte con Ettore, prima cucciolo e poi cagnone pigro e sornione. Probabilmente era l’unico bar di Bologna dove fossero ammessi i cani, tanto da indurci a trasformare l’insegna da “Alla Bolognina” a “Cucciolo Bar”.
Luca è rimasto cucciolo. Luca era e ora non è più. Luca non aveva l’età della patente ma i suoi amici del gruppo punk rock sì. Quel sabato sera l’aveva cantata la nuova canzone Blu Elettrico ed io l’avevo applaudito per non farlo rimanere male. Luigi non lo vedo più. Lui ha i suoi figli che sono poi figli anche della moglie: la famiglia non è più allargata ma molto ristretta. Il Bar c’è sempre con la Serena che il seno ce l’ha sempre turgido ma il viso è ormai sfiorito sul suo nasino all’insù e sul suo ostinato tentativo di sembrare felice. E io, sempre dietro al bancone. Io, che il tentativo di essere felice l’ho sepolto insieme a Luca, servo i miei vecchietti longevi, beati loro.