di Carla Colonnelli

Era un’estate torrida, a detta del bagnino la più calda degli ultimi vent’anni, e la vacanza procedeva a rilento come un vecchio barcone a motore spento. I miei genitori si arrostivano al sole leggendo libri che non raccontavano a nessuno mentre il loro matrimonio se ne andava dolcemente alla deriva.
Ero la loro unica figlia, avevo quattordici anni ed ero la ragazzina più infelice del mondo, almeno così pensavo. Non andavo bene a scuola, ero brutta come tutte le adolescenti che pensano di esserlo e, soprattutto, non avevo una madre che cercava di convincermi del contrario. Li guardavo mentre leggevano incuranti di quel caldo atroce e io non capivo come mia madre preferisse la lettura di “Slittamento salariale e sindacato con particolare riferimento all’industria metalmeccanica”, anziché guardare con adorazione quell’uomo bellissimo che le stava accanto e che leggeva “Cime tempestose”.
Papà aveva un modo irresistibile di guardare sua moglie, ma non solo lei. La mamma, quell’estate, forse lo sapeva.
Un paio di stabilimenti dopo il nostro, sotto lo stesso sole di agosto, c’era una ragazza che tra un bagno e l’altro aspettava il suo uomo che l’avrebbe guardata con occhi vivaci e penetranti, quelli di mio padre.
Io ero la terza, non meno importante, non meno guardata. Anch’io godevo della sua protezione, della sua intelligenza, del suo amore. Anni dopo gli chiesi perché non avesse lasciato la mamma quando io, ormai adulta, mi ero trasferita in un’altra città. “Perché volevo essere io ad aprirti il cancello quando tornavi a casa, sempre”.
Quell’estate tutto quello sbatacchiamento amoroso tra gli ombrelloni riguardava anche me.
Stefano occupava la sdraia della fila davanti, con i suoi genitori e il fratellino più piccolo. Aveva sedici anni e lui sì che era bello e anche la sua fidanzata era bella. Io giocavo con il piccolo Luca a bocce e a carte e mi divertivo con quel nano di sei anni che parlava come uno di venti. Anche Stefano ci guardava e rideva, con quella strafiga accanto che io odiavo per la pancia piatta e i denti perfetti. Poi Stefano si stancò di pomiciare con quel sorriso Durban’s e finalmente iniziò a giocare con me e suo fratello.
Divenni allegra, esuberante, sportiva e stanchissima per lo sforzo di tenere tutto quel tempo la pancia in dentro. Poi a Luca venne la febbre e Stefano preferì la compagnia degli amici. Io sprofondai nella disperazione e papà non mi lasciò sola. Mi fece ridere, mi riempì di coccole e la sera, sulla veranda, mi leggeva “Le ragazze di San Frediano”. Anche mamma ascoltava e tutti e tre ci guardavamo e ci sorridevamo.
Le ferie di papà finirono e tornò in città insieme alla ragazza a lavorare, insieme nello stesso ufficio.
Luca guarì, Stefano tornò a giocare con noi e mamma continuò a leggere sulla spiaggia.
Quell’estate pensavo ancora che fosse normale che mia madre avesse così scarsa attenzione nei miei confronti, perché a quattordici anni pensi che sia tua la colpa e che se fossi diversa, se riuscissi a dire cose più opportune, lei forse avrebbe piacere di parlare con te.
Il giorno della mia laurea mi abbracciò: “Adesso cara dottoressa hai tutti gli strumenti per occuparti di me”.
Andammo insieme in ospedale e parlammo con l’oncologo. In quei terribili mesi fummo di nuovo una famiglia e la sera, insieme, discutevamo di terapie, ospedali, pensioni di invalidità. La mamma era amministratrice delegata di una grande azienda e si comportò come era solita fare al lavoro: determinata, preparata e bravissima nel contrattare con il tumore, fino a sconfiggerlo.
La ragazza, ormai donna, non si era mai allontanata. Molti anni più tardi mi decisi a chiedere a mia madre:
“Perché hai sopportato?”.
“Perché ogni tanto tuo padre mi guardava con la stessa espressione che aveva con te”, mi rispose.
Dopo l’università mi trasferii a Bologna. Tornavo qualche fine settimana prima sola, poi con marito e successivamente con prole. E loro due sempre dietro al cancello automatico che si apriva, sorridenti e a braccia aperte. I miei anziani genitori.
Il giorno del funerale di mio padre, a Fregene, la vidi insieme agli altri ex colleghi: minuta, scurissima di carnagione, non più ragazza.
Papà morì improvvisamente, un infarto mentre dormiva con sua moglie. Un caso. Poteva succedere in un altro letto, in un’altra casa, accanto a un’altra donna.
Era la seconda volta che la vedevo.
Era già successo quell’estate, dopo che Stefano mi aveva baciata. Era stato un gesto improvviso. Suonavo la chitarra e lo avevo colpito con “Suzanne”. Voleva imparare a suonare Leonard Cohen come me, con quegli arpeggi difficili che mi aveva insegnato papà.
E io felice, con la bocca indolenzita da tutto quel baciare, cercavo mio padre per Fregene.
Correvo come una pazza perché dovevo ringraziarlo per avermi insegnato a suonare la chitarra, per avermi accompagnata dal parrucchiere e per avermi aiutata a scegliere quella maglietta che copriva la pancia così da poter finalmente respirare.
Mi scontrai con loro dietro un angolo di un palazzo. Mi gettai tra le braccia di papà e lo abbracciai forte. Lui rideva contento e la ragazza accanto ci guardava senza capire, ma sorrideva e mi stava simpatica perché lo faceva anche con gli occhi. Mi presentò quella collega che, come noi, trascorreva le vacanze a Fregene. Ci prendemmo un gelato che io leccavo beata tra loro come una bambina di quattordici anni che si è appena fidanzata.
Anni dopo, quando ormai sapevo, continuai a legare quella ragazza a quel giorno, all’inizio dell’accettazione del mio corpo dentro il quale iniziavo finalmente a stare a mio agio.
Dopo il funerale, non venne al cimitero e io, invece, avrei voluto parlarci, dirle che non l’avevo odiata, che non mi aveva tolto niente, che provavo una pena infinita per la sua vita trascorsa a raccogliere briciole.
E la cercai, trovandola un paio di stabilimenti più in là.