di Lorenza Cianci

Agosto, 1972
Cara Susanna,
perduta è ogni cosa, e la scrittura è l’unico sequel accordato ai miei drammatici colpi di scena esistenziali, il puntello che mi sostiene, nella mia ultima allegra chiassosa e pagana processione, tra i muri del corridoio severo, lungo e stretto, su cui si affacciano, tristi e insignificanti, le stanze di questa casa senza anime. La scrittura continua a dare un senso, infine, e senza legame alcuno di casualità, a questi estremi giorni agostani interminabili. Nel piatto doccia è spiaggiato il pothos che ricordi, i suoi keiki sono affogati nell’acqua come girini prematuri. Per fortuna, su quest’ala dell’appartamento, quella in cui il pothos sta, annegato, è una toilette di servizio. Sai, l’altro giorno raccontavo ad Emma della mia scoperta e lei mi ha risposto in un modo che, sinceramente, non ho compreso. Le ho spiegato dettagliatamente, poi, come si impasta la farina di semola con la cannella e lei, mi sembra, si è distratta un attimo dai pensieri privati che la attanagliavano. Ha sorriso. Poi mi ha chiesto se dovesse andare a comprare il giornale per me, il giorno dopo. O se fosse meglio non farlo dato che qui, in questa città riparata dal mondo, ad agosto, non succede mai niente e si vive al sicuro nell’apatia. Fatta eccezione per quelle operette logorroiche organizzate durante la kermesse estiva dalla compagnia teatrale “Il Sole”, in piazza. I protagonisti sono, di solito, marito e moglie e la moglie ha sempre un ferro da stiro in mano e un grosso fazzoletto bianco intorno alla testa e un lungo grembiule a scacchi di colore lilla. Alla fine, io ed Emma siamo finite a parlare di Louella Rose Ottinger, coniugata Parsons e del Yellow journalism e del gossip scandalistico come l’unico fatto serio si possa tollerare di questi tempi, e come l’unica frivolezza che mi dia, davvero, nella tristezza del momento, un prosaico conforto. Quando stava andandosene, Emma si è fermata sul battiporta, mi ha guardato fisso, mi ha preso l’avambraccio distratta e mi ha detto: «riguardo la tua scoperta…cerca di stare tranquilla. E questo è tutto. A domani». Dopo pochi istanti ero di fronte a una porta chiusa e vuota. Ho guardato dallo spioncino di sicurezza se vi fossero, aldilà di quel muro di legno, forme umane di passaggio in quella porzione di tromba delle scale che afferravo, con i miei occhi miopi, dal mio obiettivo surrogato. Sono rimasta nella contemplazione del vuoto in attesa che una forma umana passasse, distratta dal pensiero della propria vita, per sentirmi confortata: ho atteso, religiosamente, almeno, nove minuti. Ho ricomposto, nel frattempo, ogni particolare di quel pezzo di scala che entrasse nel mio bulbo intagliato nel legno. Esattamente, al minuto cinque dei nove di attesa, ho avuto il netto presentimento che quella successione di gradini monocordi fosse una sproporzionata porzione metaforica della mia vita attuale: graniglia e cemento e schegge di marmo ributtate, nere, rosa, verdi, un’asfissia priva di un armonioso disegno cosmico comminato da un divino prometeo del cielo. A un certo punto, quella contemplazione è stata interrotta da un paio di sandali di stile caprese contraffatto che facevano viaggiare unghie rubino e un paio di piedi di donna, callosi e stanchi. Non ne ho sentito alcun conforto. Mi sono ritirata dalla porta nelle stanze più interne della casa, nel limite circoscritto della mia sicurezza domestica. Ho acceso la radio: «potenziali pericoli alla salute legati a temperature troppo elevate, si consiglia di portare borracce in alluminio per tenere al gelo l’acqua, e ombrelli parasole, nel caso foste costretti a uscire di casa». Mi sono seduta allo sgabello del corridoio, vicino all’armadietto a comò dove stavano stipate le pagine gialle come annuari americani. Le ho prese, ho composto il numero. Il telefono ha squillato. Mentre metodico e inossidabile l’apparecchio scandiva gli squilli, ho fissato la statuetta di porcellana poggiata al centrino a tombolo all’armadietto delle pagine gialle. Era una piccola donna con un velo in testa, poggiata allo scranno di un pozzo in porcellana: rappresentava la samaritana del Vangelo. I suoi occhi bianchi senza iridi, fissi dove i miei non potevano raggiungerla, a terra, persi nel gres. All’altro lato del ricevitore non c’era nessuno. Il filo della cornetta pendeva in un vuoto immortale e nessuno, dall’altra parte della lunga via della comunicazione umana voleva sapere, io, cosa avessi scoperto. L’avevo detto, fino ad allora, solo ad Emma. Lei aveva fatto del tutto finta di non provare pena, né giudizio, verso di me. Non era vero. Poi, era andata via con gli occhi che mi perseguitavano e, forse, voleva dirmi questo: «certe cose, cara, dei propri uomini, è meglio non saperle».
Ho acceso la televisione perché a quell’ora davano lo sceneggiato della Rai Il segno del comando in cinque puntate con Carla Gravina. In casa ero sola e per le scale non c’era che una coltre ambigua e nera che cancellava graniglia, cemento e marmi neri, verdi, rossi. Era tutto perduto.
Addio,
Firmato, L.
Linguaggio dettagliato. Racconto non per tutti ma di alta qualità stilistica e con contenuti del nostro bel paese.
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