di Kris Celsi Gallo

Lo aveva avvertito di stare attento. Ma lui se n’era bellamente fregato. Tanto era lei quella che restava nei pasticci! Avrebbe ricordato per sempre quella inutile scopata. Non certo perché fosse stata memorabile per l’aspetto sessuale, appunto inutile, ma per la sensazione immediata di bestia ferita, di preda già morta e impagliata nella stanza da fumo dei signori, di una tacca in più su un bastone di comando, di una bandierina poggiata su una cartina geografica a designare un territorio espugnato, di uno stivale poggiato sul corpo, il suo corpo, trofeo di caccia abbattuto. Sì, quella sensazione l’avrebbe inseguita per tutta la vita, infischiandosene del fatto che fosse stata una storia da niente, nata da poche settimane e finita in quel preciso istante. Ecco, si sentiva così. E si sentiva così perché in quell’istante aveva avuto la certezza, una strana certezza, assoluta, di essere rimasta fregata. Non sapeva spiegarselo, mai le era capitato. Era giovane, venti anni li avrebbe compiuti dopo sette mesi, non molto esperta riguardo al sesso, nessun anticoncezionale. (La pillola non era ancora così diffusa). Poi, insieme alla certezza, era arrivato il rifiuto per quel ragazzo così stupidamente egoista e da quel momento aveva provato per lui solo risentimento e ripugnanza. Ma per quanto dentro di sé ne fosse sicura al cento per cento, e dall’istante preciso in cui lui aveva deciso d’ignorare la sua richiesta, la sicurezza assoluta, quella inequivocabile, arrivò solo quando non si presentarono le mestruazioni. Era incinta, maledizione! Sì.
L’aborto appariva ai suoi occhi come inevitabile. Complicato, perché si trovava in Francia, da sola. Era l’inizio degli anni ’70 e l’aborto era ancora proibito, l’avrebbero liberalizzato cinque mesi dopo.
Almeno in questo lui si dimostrò collaborativo. Si offrì di pagare per i “cocci rotti” insomma, e nel giro di due mesi tutto fu organizzato e lei si ritrovò in una clinica privata, con una stanza tutta per sé. Svegliandosi dall’anestesia, in quello stato in cui ancora non si è pienamente lucidi, gridò: “Mi avete ucciso il figlio!”. Subito però se n’era vergognata, la colpa era sua, non loro. Meno male che l’aveva urlato in italiano! Tuttavia questo suo senso di colpa, che aveva cercato di addossare ai medici e alle infermiere che l’assistevano, si manifestò successivamente in una terribile depressione che l’accompagnò per diversi mesi. Quando rientrò in Italia si fece visitare da un neurologo. Le prescrisse delle pillole triangolari gialle che la rimisero in sesto dopo alcune settimane. Quel brutto episodio sembrava essersi allontanato ora dalla sua coscienza, quasi fosse appartenuto alla storia o alle confidenze di qualche sua amica. Ma in realtà viaggiava nel profondo, emergendo in sogno di tanto in tanto. Aveva sognato che sul suo comodino il feto del bambino, giacché era certa del suo sesso, si trovasse dentro una bottiglia, rannicchiato. In Francia, prima che lui si offrisse di pagarle una clinica, aveva sentito parlare del metodo Karman. Con una pompa di bicicletta procuravano un vuoto d’aria in una bottiglia che risucchiava il contenuto del ventre. Le era parso raccapricciante, ma forse aveva capito male… Qualche anno dopo aveva sognato di viaggiare in auto con il bambino, che nel frattempo era cresciuto, e di allacciargli la cintura di sicurezza. Poi il ricordo si annebbiò e svanì.
Passarono dieci anni in cui si può dire che avesse mangiato pane e pillola e – durante un mese di pausa da questa dieta, prescritta dal ginecologo: “Ogni tanto bisogna interromperne l’assunzione!” – di nuovo capitò che l’attuale lui se ne fregasse delle sue previsioni da Cassandra. Questa volta decise di portare avanti la gravidanza, non se la sentiva proprio di abortire ancora, oltre tutto la fecondazione coincise, dieci anni dopo, con la presunta data di nascita di quel bambino non voluto. Quando nacque la bambina le parve di aver espiato, o quanto meno, compensato la sua colpa e, nonostante le sue condizioni economiche fossero alquanto difficili, s’impegnò molto e riuscì a crescere la bimba, da sola, nel migliore dei modi. Passarono venticinque anni e sua figlia, ormai emancipata, andò a vivere con il suo ragazzo. Ogni tanto, di domenica, s’incontravano, lei allestiva ottimi pranzi nei quali dava il meglio di sé, costringendosi a lunghi soggiorni in cucina. Si sentiva una madre realizzata ora e di quell’episodio remoto della sua gioventù sembrava non avere più memoria.
Finché, un giorno, le capitò d’incontrare un giovane sensitivo che notò accanto a lei la presenza dell’entità di quel feto morto. La cosa la sconvolse: pensava ormai di essersi emendata, liberata dai sensi di colpa, invece il suo passato riemergeva in modo inquietante. Il giovane le disse che non era un caso insolito che un bambino non nato restasse per così tanto tempo accanto alla madre. Si offrì di aiutarlo a spostarsi in piani superiori e lei si affidò a lui, che mise in atto un rituale per allontanarlo e purificarla. Per tre o quattro mesi si sentì frastornata. La notte prendeva sonno con difficoltà poi, tutto sommato, in poco tempo rimosse di nuovo quell’episodio.
Due anni dopo però avvenne qualcosa che la turbò profondamente. Aveva partecipato a un corso di scrittura creativa e doveva terminare il monologo che aveva scelto di scrivere. Nel testo, incentrato su un’anziana femminista, decise d’inserire, tra le esperienze della protagonista, anche l’episodio del suo sofferto aborto, naturalmente cambiando luogo e circostanze, ma citò la famosa frase: “Mi avete ucciso il figlio!” che lei peraltro aveva gridato in italiano. Appena scritta la frase, il suo computer, un Mac Book Pro, inaspettatamente iniziò a sottolineare tutte le parole del suo testo in rosso. Rimase stupita, non era mai capitato prima. Cosa poteva essere successo? Aveva forse toccato qualche tasto che non conosceva, incidentalmente? All’improvviso sembrava che il computer non comprendesse più le parole che lei aveva scritto fino ad allora. Le venne in mente di verificare la lingua di Word e scoprì che il suo Mac, da solo, aveva cambiato l’italiano con il francese. Ma come era stato possibile? Non aveva scritto neanche una parola in francese. Neanche nominata la Francia… E poi comunque, il computer mica cambia da solo! Rimise su italiano la lingua di Word, ma quel file non ne voleva sapere di scrivere in italiano. Continuava a sottolineare le parole in rosso e tornava a posizionarsi sul francese. Portò il Mac in assistenza, pensando che loro potessero risolvere il problema, ma niente da fare. Qualsiasi nuovo o vecchio file di Word parlava italiano, quello con la famosa frase gridata in italiano in Francia, parlava francese. Alla fine dovette arrendersi e, con santa pazienza, riscrisse tutto in un nuovo file. E un’altra volta, dopo qualche tempo, dimenticò lo strano episodio e il trauma di trenta anni prima che aveva risvegliato.
Trascorsero quattro o cinque anni in cui non si riaffacciò alla memoria né il suo ormai abituale senso di colpa, né il ricordo di quello che lo aveva generato. In quegli anni prese a frequentare un gruppo che praticava la meditazione di consapevolezza Vipassana. Questa pratica le dava una bella sensazione di pace, le sembrava ogni volta che si riunivano a meditare, di rigenerarsi. Leggeva libri sull’argomento e seguiva i conferenzieri più interessanti. Un giorno, per ascoltare un esperto in materia partecipò a un convegno che si svolgeva a una trentina di chilometri da casa sua, in un piccolo luogo di mare dove era stata a villeggiare da bambina. Nella quota di partecipazione al convegno era compreso anche l’incontro con una sensitiva. Alla cassa le chiesero se avesse preferenze sulla persona, ma lei, che non conosceva nessuno, non ne espresse e si affidò al caso: la prima sensitiva disponibile. La guidarono verso una stanza nella quale una signora anziana, bassina e rotondetta, le sorrise e la invitò a sedersi di fronte a lei su una poltroncina, poi presele le mani le chiese con chi volesse parlare. Rimase stupita, non aveva pensato a una simile eventualità. Si aspettava qualcosa di diverso, non avrebbe saputo dire cosa, ma forse una lettura di carte, di rune, o anche di Ching, non certo una comunicazione con qualcuno dell’Aldilà. Ci pensò un attimo, passando in rassegna le persone a lei care che erano morte e decise di parlare con suo padre, il quale se n’era andato già da dodici anni. La sensitiva, che stranamente assomigliava a una di quelle fate-vecchine delle favole, le riferì molte notizie che effettivamente corrispondevano al vero e dopo un lungo discorso e varie domande lei si sentì pienamente soddisfatta e pensò di congedarsi, ma mentre si stava alzando dalla poltroncina, la fata-vecchina le disse: “Sa, signora, accanto a lei c’è un bellissimo ragazzo che le assomiglia molto. È forse suo figlio?”. Ricadde sulla poltroncina senza forze, meravigliata e profondamente inquieta. All’improvviso i suoi occhi si riempirono di lacrime e, sfinita dal senso di colpa e dall’emozione, rispose: “Sì, lo sarebbe stato, ma non riuscii a portare a termine la gravidanza e abortii”. “Non pianga signora, lui è vicino a lei e le vuole bene… solo si rammarica che non gli abbia dato un nome”. “Un nome?”. “Sì, gli dia un nome. Non desidera altro”.
Da quell’incontro uscì sopraffatta dal dolore per non aver accolto quel figlio che ancora le stava così inspiegabilmente attaccato. Le sembrava strano, dopo tanto tempo, decidere di dargli un nome. Poi ragionò: anche sulle tombe dei bambini nati morti è indicato un nome. A maggior ragione doveva averne un bambino che avrebbe voluto nascere e a cui era stato impedito. Pensava che in verità non aveva visto l’ora di liberarsene, non lo aveva considerato altro che un ingombro inutile e dannoso. Un figlio che le era stato imposto dal comportamento odioso di quel ragazzo incosciente ed egoista. Però riemergendo dall’anestesia, in quel limbo tra l’incoscienza e la realtà, aveva gridato, piangendo: “Mi avete ucciso il figlio!”. Quindi da qualche parte, dentro di lei, qualcosa aveva sofferto e, considerando i sogni in cui era apparso, continuava a soffrire. Tornando a casa, mentre guidava, col pensiero ripercorreva ancora una volta tutta quella storia, giungendo però alla conclusione che sarebbe stata una pazzia metterlo al mondo in quelle condizioni. Eppure il senso di colpa nei confronti del figlio non nato aumentava. Per esorcizzarlo, appena entrata in casa, si precipitò a chiamare la sua migliore amica, Sonia, testimone di tutti i travagli che la sua anima aveva vissuto fino ad allora. Le raccontò dello strano incontro e della sorprendente richiesta. Sonia, la sua amica, le chiese se avesse già pensato a un nome, ma lei, persa com’era a rievocare i passaggi della situazione in quel remoto passato, non ci aveva ancora pensato e adesso doveva preparare la cena, guardare le e-mail, certamente avrebbe dovuto rispondere a qualcuno… Le rispose: “Ci penserò stanotte, prima di dormire”. Quando finalmente s’infilò sotto le lenzuola, il pensiero del compito da assolvere le si presentò alla mente. Che nome dargli? Che nome avrebbe voluto o dovuto avere? Partendo da questi interrogativi, considerò, che visto che sarebbe dovuto nascere in Francia, un nome francese sarebbe stato appropriato. Il primo nome che le venne in mente fu Pascal, certamente influenzato dal libro che campeggiava sul comodino: “Pensieri”, libro del quale ogni tanto meditava qualche riga. No, forse non era una scelta giusta. In questo caso poi era un cognome. Si chiese: qual era il nome proprio di Pascal? Blaise. Suonava dolce e anche un poco snob. Perché no? Sì, l’avrebbe chiamato Blaise. Aprì il libro e, curiosando nella biografia, scoprì che Blaise Pascal era nato il 19 giugno e suo figlio avrebbe terminato il tempo di gestazione il 20 giugno! Le parve un segno. Dopo questa decisione si addormentò velocemente.
Al mattino, il nome Blaise le risuonava in modo felice nella mente, si sentiva finalmente piena di energia. Si preparò con cura, doveva andare a ritirare un catalogo in una galleria d’arte che si trovava piuttosto lontano da casa sua. Lungo la strada la chiamò Sonia. L’auto per fortuna aveva il telefono sincronizzato. Era curiosa di sapere quale nome avesse scelto. Lei disse: “Ho scelto Blaise. Sai, come Pascal”. Sonia, un po’ stupita, rispose: “Biagio? Pensi che gli piacerà?”. Non avrebbe mai immaginato che in italiano Blaise suonasse così. Da che le era sembrato un nome quasi aristocratico, improvvisamente, detto in lingua italiana, le appariva come un nome adatto a un sempliciotto… si chiese: “Già, gli piacerà?”. Stava attraversando una piazza a lei sconosciuta, in una zona della città che non frequentava, e le corse lo sguardo sulla targa con il nome della piazza: Biagio Pace (archeologo), lesse. Dentro di sé sorrise, poi, raggiante, rispose: “Sì, penso che gli piacerà e che ora, Blaise, riposerà in pace”.