(testi scritti il 18 marzo 2022 alla Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna)
LEI
di Elisa Carlino
Camminava sicura si sé tra le strade affollate. Le stesse strade che aveva percorso qualche anno prima con titubanza, sguardo basso e paura di sembrare goffa. Il peso sul petto non era più così schiacciante come allora. Potevi scorgere nuovamente l’energia vitale, la forza, la voglia di sbranare la vita nel suo passo veloce. Era rinata e sorrideva trionfante alla pesantezza del passato che non aveva più il potere di turbare il suo presente. Il suo lato selvaggio non era più ingabbiato e se la osservavi con attenzione notavi un ghigno sul suo volto, ancora così giovane e già così segnato dalla sofferenza.
CAPELLI CORTI
di Anna Gambetti
Per tanti anni, quasi una vita intera ho vissuto con i miei capelli corti, sempre più corti, taglio e colore l’unica mia stravaganza. Pochi anni fa però mi sono riguardata e ho lavorato sul perché lo avevo fatto e lo continuavo a fare.
La voce dei ricordi mi prende alla sprovvista, mio padre che diceva: “ma come sono lunghi quei capelli tagliali! Non sono comodi”, mi ha sempre voluta con i capelli corti. Mi rivedo in una foto con i miei fratelli più piccoli, sono una loro copia, un caschetto corto come il loro, una maschietta insomma.
La voce interiore si fa più forte e mi fa guardare con occhi diversi quello che avevo sempre avuto sotto il naso e a cui non avevo mai dato la giusta importanza. Così, complice anche la pandemia con le chiusure dei saloni da parrucchiere, ho cominciato a far crescere i capelli. Ho scoperto che sono ricci, voluminosi, uno stravagante sale e pepe. Sono riuscita a rompere forse un po’ in ritardo con qualcosa che mi aveva sempre tenuto in ostaggio, unicamente per essere accettata da mio padre. L’albero genealogico finalmente si è pacificato ed è fuoriuscita un’altra me…. Con i capelli lunghi e un’altra consapevolezza.
FANO
di Maria Grazia Lungarini
Esame di terza media: fatto
Punteggio conseguito: ottimo
Bacio accademico: non pervenuto
Ritorno a casa: felice
Incontro con i miei genitori: ecco…questa era l’incognita!
Avrebbero accettato di concedermi il regalo che mi avevano promesso da tanto?
Rivivo quel momento come in un film e mi rivedo a 14 anni. Lo sguardo era luminoso, i capelli lunghi castani erano tenuti a bada faticosamente con torture notturne chiamate ruota o svedese: cosa non avrei fatto per domare i miei riccioli naturali! La figura era slanciata, troppo magra secondo mio padre, un fisico acerbo ma femminile, il passo aggraziato, anche se non sempre composto, come avrebbe voluto mia madre. Vestiti su misura, opera di una zia sarta dalle mani di fata.
Ed eccomi lì, pronta a incontrare i miei e a rivendicare, con l’inconsapevole arroganza della mia giovane età, l’agognato premio per il mio risultato scolastico. Ero certa di convincerli ad acquistare l’oggetto dei miei desideri, il mio primo motorino nuovo fiammante: si chiamava Motorella, marca Benelli.
Sentivo già il vento fra i capelli…
Post scriptum
Nel luglio del 1969 la strada si era presa la vita di mio fratello Mario, investito mentre era in sella al suo inseparabile Corsarino 48, Morini Motor.
Molti anni dopo, quando sono diventata madre, ho compreso l’immane sforzo dei miei genitori per dirmi quel sì e per la prima volta mi sono inchinata, riconoscente, al loro incommensurabile coraggio.
VITA DA STUDENTE FUORI SEDE
di Maria Grazia Lungarini
Lunedì mattina ore 8,30
Stazione di Fano, binario 2
Partenza per Bologna
Per motivi di studio vivo a Bologna dal lunedì al venerdì
Con stupore, mentre cammino lungo il binario, scopro che quasi tutti i viaggiatori in attesa oltre al bagaglio hanno l’immancabile borsa delle provviste.
Chi non è stato uno studente universitario fuori sede non può capire cosa significhi lasciare la propria città e la famiglia con quel misto di felicità e nostalgia.
Il mare di Fano non potevo portarlo con me, ma l’affetto della mia famiglia traboccava dalla borsa delle provviste, facendosi largo fra vasetti di ragù e polpettine in umido, fra le uova delle galline di nonna e l’avanzo di qualche manicaretto domenicale. Talvolta non poteva mancare la bottiglia del Vov fatto in casa da mia madre, per sostenermi prima degli esami più impegnativi.
Sul treno all’inizio ci sentivamo sperduti, ma a ben guardare negli occhi avevamo lo stesso sguardo affamato di vita e di libertà.
Così quei viaggi divenivano occasione di incontro e poi di confidenze nello spazio angusto degli scompartimenti vecchi e datati, che a loro modo favorivano una sottile complicità.
Si condividevano informazioni utili per ambientarsi in città (non è vero che “nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino”) e racconti delle nostre prime esperienze universitarie. C’era chi dopo un mese era perfettamente ambientato e chi meditava di ripiegare su un trasferimento all’Università di Urbino, più vicina a casa.
E poi arrivò quell’anno in cui il Movimento Studentesco uscì dalle sedi istituzionali e invase il centro di Bologna. Dai racconti in treno si potevano cogliere segnali di grande fermento e di preoccupazione e non di rado le discussioni diventavano accese e i toni più accorati. Alcune Facoltà erano occupate, le lezioni sospese, le assemblee sempre più caotiche e i cortei rumoreggiavano, pronti a rompere gli argini. Sentivo l’esigenza di capire, di confrontarmi con gli altri e soprattutto con le altre, di far sentire la nostra voce.
La vita non sarebbe più stata quella di prima…
LA SALOPETTE
di Gabriella Mazza
Era mattina, non era molto presto, perché avevo dovuto aspettare che papà finisse di fare un lavoretto in cantina.
Lui lavorava sempre in cantina, faceva cose meravigliose con il legno e con le sue mani.
Dovevamo andare a comprare dei vestiti nuovi per me. In famiglia c’era una festa, un matrimonio e io volevo comprare una salopette che avevo già visto in una vetrina.
Avevo i capelli corti, ma qualche giorno prima ero stata dalla parrucchiera per farmeli mettere in piega lisci. Ho sempre lottato coi miei ricci e adoravo vestire un po’ da maschio. Trovavo la salopette perfetta per l’occasione e sapevo che papà mi avrebbe supportato nella scelta. Ero felice perché mi piaceva molto andare insieme a papà per negozi e non sapevo che avrei avuto ancora così poco tempo da passare insieme a lui.
UNA DOMENICA INDIMENTICABILE
di Gabriella Mazza
La nebbia
Quello che ricordo è soprattutto la nebbia e noi tre che facevamo su e giù nervosamente tra il cinema e la piazza dove Elena, mia sorella aveva parcheggiato la ‘500.
Correvamo da un estremo all’altro mentre la fila delle macchine aumentava e i fari allineati mi accecavano e mi preoccupavano. Era buio ed erano da poco passate le 19.35 di quel 23 novembre del 1980. Correvamo perché non sapevamo se fosse meglio tornare a casa a piedi o infilarci nel traffico, che però stava diventando insostenibile. Quella domenica avevamo deciso di andare al cinema a vedere un film divertente, eravamo io, mia sorella e la sua bambina di cinque anni.
Il boato
C’era il buio della sala, noi nelle prime file e la scena era questa: l’attore protagonista stava cadendo dall’alto verso il pavimento, appena è arrivato a terra abbiamo sentito un forte rumore, un boato.
Un boato? Tutti gli spettatori si sono alzati, correvano verso l’uscita, qualcuno urlava.
Lo stupore e la paura
Ci abbiamo messo un po’ per capire cosa stesse succedendo, all’inizio dicevano: un incendio, un incendio! Ma le fiamme non si vedevano, siamo rimaste attonite e immobili, mentre tutti intorno a noi correvano. Avevamo una bambina piccola con noi, correvamo il rischio che la schiacciassero.
Gli stivali ai piedi del letto
Quando siamo arrivate a casa tutti erano fuori, ognuno raccontava la scossa che aveva sentito; dove fosse in quel preciso istante, cosa stesse facendo e con chi era. Una scossa di terremoto questo era stato, una scossa lunga e pericolosa, che già dalle prime ore successive abbiamo capito che avrebbe fatto molte vittime. Avevamo paura, eravamo sgomenti e ognuno di noi cercava conforto nell’altro, c’erano tanti gruppetti. Qualcuno si era messo a dormire nelle macchine. Noi alla fine eravamo rientrati in casa. Abitavamo in una villetta indipendente, tutta al piano terra. La stanchezza aveva preso il sopravvento e alla fine eravamo andati a letto ma vestiti e con gli stivali affianco al letto, pronti per essere infilati velocemente per scappare.
Così avremmo fatto per molte altre notti.
TRENT’ANNI
di Rachele Ricucci
1)
Non sono più una bambina.
Ho bisogno di ripeterlo quando mi guardo allo specchio e, ultimamente, lo faccio spesso
per tenermi d’occhio, monitorarmi, conoscerle una per una: le mie prime rughe.
Non sono più una bambina.
Lo dico con insistenza, nonostante la pelle del viso ovale in effetti sia ancora soda, i capelli ricci, corvini e folti, ancora liberi e insolenti com’è stato sempre.
Dopo il funerale ci ho pensato spesso che poi si invecchia, le forme si guastano e serve uno sguardo nuovo, tollerante, per accettare il cambiamento.
Che donna eri, prima di morire?
In chiesa hanno detto che eri donna di lettere, perché “per te l’emancipazione passava innanzitutto da qui”. Ora che ci penso, tu sì che sei stata qualcuno, prima di morire: un’adulta coi suoi tratti peculiari, ostinatamente sé stessa, sicura dei suoi princìpi.
Allora forse mi tocca abitarmi per bene, da qui in avanti, così il prete lo fa anche a me un bel funerale. Ma io in Dio non ci credo e soffro di claustrofobia: non ci voglio stare nella bara. Nemmeno morta.
Così riflettevo, coi modi paradossali e impertinenti che in parte ti facevano sorridere anche se ero dissacrante e in parte ci hanno fatte allontanare, slegata come sono da ciò che per te è sacro, binario, ideale.
Non sono più una bambina: da quando il sonno non restituisce come un tempo ciò che toglie il pianto, da quando ho scoperto che dei miei trent’anni ho fatto tardi i conti, scansato i sorsi. Mandare giù le cose d’ogni giorno non è sufficiente all’autodeterminazione e crescerò anche se i miei tratti non ti assomigliano abbastanza. Mi perdonerai se ora si divide da te, la mia strada di donna? Restano le rughe ad accorciare la distanza tra di noi, si guasterà anche la mia forma, ho sempre la tua stessa voglia di dare un senso al mio tempo, ostinatamente, trovare la misura di me stessa.
2)
Scegliere di scendere dai tacchi
prendere la patente
tagliare i capelli
domandarti che forma hai
scoprire che la donna è un melograno–
l’hai fatto sotto ai miei occhi, sai:
sradicarti, rinascere, sbagliare.
Amica mia mi hai detto
che ti ero ispirazione. Eppure ora sei tu
la mano che mancava
a sorreggermi ora che scelgo
cosa sono i 30 anni
di salire sui tacchi
prendere la patente
pettinare i capelli – domandarmi
che forma ho
COMMOVENTI, COINVOLGENTI, INTERESSANTI, SPUMEGGIANTI, EVOCATIVI. PARLANO LINGUE DI DONNE DIVERSE, MA SPECIALI
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Storie di vita travolgenti, indimenticabili com’è il vostro modo di scrivere. Complimenti a tutte.
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