di Paola M.C. Fasano

Domani è il primo ottobre, che bello torno a scuola, stasera sceglierò il vestito da mettermi, voglio essere la più carina, mi invidiano tutte, io ho abiti fatti su misura, a casa i soldi non si buttano, ma mia madre ha la passione per la moda, le posso chiedere sempre un abito in più, scarpe, borsa, tutto in tinta, mi porta dalla sarta, decidiamo i modelli, ecco la cosa più noiosa sono le prove, almeno due perché la signora Teresa è una precisina, guai se l’attaccatura delle maniche fa una piega o l’orlo non è perfetto, si mette in ginocchio sopra un cuscino grigio, ammaccato dall’uso, punta gli spilli che tiene in una tasca di feltro fissata sul petto con una spilla arrugginita e qualche volta mi scappa “ahi” e “oh scusa” dice lei, ma procede di fretta perché mi infila e sfila la gonna o il vestito o il cappotto finché non è tutto perfetto e io mi lamento “che barba” e lei “girati, fatti vedere, cammina”, però alla fine il risultato è da dieci e lode e mio padre va in auto a ritirare gli abiti avvolti in carta velina, è orgoglioso della sua ragazza, darebbe tutto per lei, porta il pacco come fosse un vaso di cristallo e mia madre lo aspetta in cima alle scale e sbuffa “ci hai messo tanto” poi prende il pacco, lo stende sul letto e mi chiama, dice “vedrai che effetto farai sulle tue compagne e sulle prof, ah, sarai la più elegante, ma i capelli, hai pensato a come pettinarti domani, non ti stanno male raccolti e poi, le scarpe, sospira, abbiamo dimenticato di ritirare quelle nere di vernice, con la gonna rossa a quadri bianchi, la camicia di pizzo e il golf che ti ha fatto la magliaia sarai perfetta” e mi guarda stupita mentre la lascio sola a fantasticare come se fosse la madre di una principessa da incoronare mentre io non penso ad altro che a lui perché l’ultima volta che ci siamo visti in piscina mi aveva promesso che sarebbe venuto a prendermi a scuola con la sua Cinquecento nuova, è grande lui, fa l’università fuori sede, va e viene in treno, chissà quante ragazze gli fanno il filo, sono nervosa, ho le mani fredde, devo calmarmi, no stasera non cenerò, non mi va giù neanche l’acqua, figuriamoci la pastina con il brodo di pollo che detesto, adesso fingo di avere il mal di testa, mi metterò la camicia da notte e andrò in camera mia dove farò quattro chiacchiere con il mio confidente, il silenzio, che si nasconde dietro l’armadio, è un tipo evanescente, fatto di polvere di parole, parla con suoni che solo io capisco, viene da un mondo che nessuno conosce, il mondo della soffitta della casa in campagna dove lo spettro del bisnonno morto gira con quel suo sigaro profumato in bocca e sistema i fiori che gli ho lasciato, ora secchi e sbiaditi, ma sempre belli per lui che mi amava come fossi preziosa, e adesso proverò a dormire, lo so, non sarà facile, ma sì, mi farò un bel sonno profondo e domani andrà come andrà e se Giovanni non ci sarà a mezzogiorno a prendermi, gli farò una boccaccia quando passerà davanti a casa mia, ma adesso devo riposare, sono stanca, oh no, ecco là sulla sedia il mio incubo, no, no, quello non lo voglio, il grembiule nero, la divisa delle commesse che noi ragazze dobbiamo portare a scuola, eppure sono già andata dal preside a dirgli che ora basta, lo metterò quando lo metteranno anche i ragazzi e lui, me lo ricordo benissimo, non mi ha sgridata, come mi avevano detto quelle beote delle mie compagne, mi ha chiesto di sedermi e che fifa, accidenti, su quella poltrona in cuoio screpolato, forse era di un vescovo, tutta ricci di ebano nero, paurosa, insomma mi ha detto con una voce pacata, sorprendente perché in genere ha il vocione di un basso di seconda scelta “mi spiace signorina”, mi ha chiamata signorina, a me, una sbarba, “mi spiace, ma non posso cambiare il regolamento, farò presente al Provveditore e ora torni in classe, le farò sapere” capito? ne avrebbe parlato al Provveditore, di me, uno scandalo per le madri, anche per la mia, ma non mi importa, io mi sento una suora di clausura con quello straccio nero addosso, domani me lo strappo appena esco dal cancello dell’istituto magistrale e Giovanni sarà là ad aspettarmi, farò finta di niente, camminerò dritta come un fuso, girerò solo gli occhi perché non pensi che chissà, che io non abbia nessun altro, mica glielo farò capire che quando lo vedo il cuore sbatte come il ghiaccio nel whisky e sono subito sbronza, ah no, gli dirò “che sorpresa, non ti aspettavo, avevo solo voglia di vedere la tua Cinquecento nuova”, sì ci sarà e sorriderà e mi farà ciao con la mano e lo vedranno tutti, allora griderò “arrivo, ancora cinque minuti e ci lasciano uscire” e prenderò la rincorsa per salire le scale e buttare il grembiule nero sporco di gesso della lavagna, afferrerò i libri e correrò giù dalle scale rischiando un femore rotto, mi girerò solo per guardare la smorfia dell’Ornella che non ha ancora baciato nessuno e ha detto che io sono una facile, insomma una di quelle, che risate.