di Alice Valerio

E’ buio, sono le sei e venti del mattino di venerdì 17 dicembre. Sono qui, davanti a un ospedale di Roma dove dovrò effettuare una preospedalizzazione per un intervento che subirò lunedì. L’appuntamento è alle 8 e io sono arrivata un’ora e mezza prima. Io e il navigatore non siamo mai andati d’accordo, del resto, anche da bambina ho sempre avuto paura di perdermi e con l’età questa paura si è acutizzata. Comunque ce l’ho fatta. Finalmente riesco a scrivere la prima pagina di questo diario, in una buia giornata d’inverno, col freddo che sta entrando nella macchina spenta. Riesco a scrivere grazie all’illuminazione di un lampione esterno all’entrata dell’ospedale, la motivazione per cui oggi mi trovo qui. Lunedì verrò operata allo stomaco in chirurgia bariatrica, mi applicheranno un dispositivo reversibile che ridurrà il mio stomaco e se qualcosa andrà male, se lunedì non dovessi risvegliarmi da questo intervento, sarà solo per colpa mia, dal momento che non sono obbligata a farlo.
Come mio solito, non sono riuscita a parlarne con nessuno, solo a mio marito, a cui ho dovuto dirlo per necessità. Abbiamo due figli una di 9 e uno di 20 anni, che mi ha accompagnato in questo ospedale così lontano da dove abito, così lontano da me, per persone raffinate. Flavio mi ha chiesto più volte perché dovevo andare all’ospedale, l’altro giorno, mentre traduceva per me ciò che dettava il navigatore. E io ero sempre più ansiosa: avevo paura che il medico mi avrebbe rifiutata, che mio figlio a fine giornata mi avrebbe giudicata, e mentre guidavo con Marta che alle mie spalle si dimenava cantando e ridendo, riuscivo solo a pensare alla vergogna, alla vergogna che avrei provato se qualcosa fosse andato male, anche da morta. Ma ci si può vergognare da morti?
Sono le 7 e 5, inizio a intravedere un po’ di luce, le mie gambe ormai sono completamente congelate, ma rimango ferma nel tentare di scrivere quello che non riesco a scrivere, il vero motivo per cui oggi sono qui. Nel frattempo una vocina mi pervade accusandomi di essere troppo rigida, chiusa, che se fossi stata più loquace tutto sarebbe stato più semplice, meno complicato, meno patologico. Dò la colpa alla vergogna, come fosse un’entità distinta da me, spietata come sempre nei confronti della mia parte indifesa, poi ragiono: sono io stessa ad animarla.
In questa preospedalizzazione, mi hanno sottoposta a delle analisi. Dopo i primi accertamenti aspetto di essere chiamata. In sala d’attesa aspettiamo tutti di andare nella stessa stanza, la cosa mi fa pensare che forse dovranno fare il mio stesso intervento. Una di loro ha addirittura una valigetta, ma una cosa noto che accomuna tutti: loro, diversamente da me, appaiono rilassati. Compiliamo lo stesso questionario, sono l’unica ad avere una penna, sono l’unica che non riesce a sorridere e a giocare col telefono, credo che la mia tensione sia evidente. Mi chiamano finalmente. Una dottoressa molto giovane mi spiega cosa nello specifico mi andranno a inserire, ma ci tiene a chiarire anche le controindicazioni, gli effetti collaterali che potrei subire durante o dopo l’operazione. La mia mente fissa indelebili queste parole “si ricordi che in lei ci sarà sempre un corpo estraneo”. E allora? rispondo. Dovrò vivere con la paura di prendere un’infezione durante tutta la mia vita? La donna mi risponde sempre allo stesso modo. Vado via da quella stanza. In corridoio trovo gli infermieri che mi indirizzano dall’anestesista. L’uomo si dimostra positivo nonostante a quell’ora del mattino la mia glicemia risulti alta. Penso immediatamente al mio colesterolo, sempre alto, ora ci voleva anche questa, sarei la terza diabetica in famiglia se la cosa mi dovesse sfuggire di mano, il diabete è una malattia di cui ho sempre avuto paura. Dopo aver valutato il mio questionario l’anestesista mi chiede: “apra la bocca”, eseguo a comando la sua richiesta, poi mi dice: “tutto qui?”. Questo è il massimo che riesco a fare, perché? Rispondo. Chiama una sua collega e gli fa vedere quanto sia piccola la mia apertura. Chiedo: perché qual è il problema? “La dovremo intubare”. Intubare? Perché? Non si farà un’anestesia normale? Scuotendo la testa mi fa capire che non sarà possibile.
A un certo punto rimango senza parole, mi chiedono se ho delle domande da fare, ma dopo quello che ho sentito rimango impietrita, col capo faccio capire di no. Esco dall’ospedale spaventata, prendo la macchina, inserisco il navigatore per tornare a casa, sbaglio strada, sono troppo agitata. E se avessi deciso tutto troppo in fretta? Mi domando. Allora cerco di calmarmi ripetendomi che chiamerò quell’amica che ha già fatto un intervento simile a quello che dovrò affrontare io. Sì la chiamerò, devo solo calmarmi, e poi chiamerò il Dottor G, al quale rivolgerò le mie perplessità. Ma nel frattempo combatto quella sensazione di galera in cui mi sono andata a infilare, che riappare quando non riesco a uscire fuori da qualcosa che è più grande di me, soprattutto causata da me, perché sono io che ho deciso di fare questa operazione.
La sera, poi riesco a parlare con il dottore, che mi tranquillizza, dicendo che i medici sono obbligati a parlare delle conseguenze a cui si può andare incontro, come ad esempio a un’infezione, ma questo non vuol dire che debba necessariamente accadere, neanche durante l’arco di tutta la mia esistenza. Anche la mia amica mi rassicura dicendomi che per il tipo di operazione che dovrò affrontare io “non si muore di certo”, inoltre pur avendo firmato tutti i consensi posso sempre rinunciare. Finalmente mi convinco, non sono mai stata una persona che agisce con leggerezza, senza porsi delle domande, senza aver dato una risposta a ogni dubbio: erano anni che aspettavo questo momento, mi ero già vista per un decennio tutti i documentari che parlavano di grandi obesi e di operazioni in laparoscopia. Oggi sono qui, ad affrontare un intervento di medicina bariatrica, a causa del mio indice di massa corporea arrivato nonostante i miei sforzi per evitarlo, a 31 Bmi: obesità di primo grado.
Devo trovare il modo di comunicare a Giulio che non sarà solo un giorno di degenza: ne dovrò affrontare tre e i tempi di ripresa non sono di sette giorni come mi avevano detto, ma di quattordici. Mi arrovello pensando che è molto stanco, negli ultimi tempi lo vedo provato. Già mi aveva fatto storie per una notte, ma non potevo fare diversamente, ho potuto scegliere il periodo ma non il giorno, in fondo questo periodo natalizio è l’ideale, soprattutto perché posso contare sulla sua presenza e sulla disponibilità dei miei suoceri a stare con Marta. So che questo cambiamento lo farà infuriare. Ma all’improvviso una voce mi dice: adesso o mai più! E’ adesso il momento. Ripeto a me stessa, è troppo tempo che aspetto: non mesi, anni. Sono anni che mi voglio riappropriare della mia vita, è passato troppo tempo da quando non mi sento più bella, da quando mi nascondo per evitare di farmi fotografare, e se qualcuno mi fa una foto a tradimento, nel rivederla tra me e me penso che faccio schifo. Negli ultimi due anni la situazione è anche peggiorata con il covid, che mi ha costretta a vedere la mia immagine riflessa su un video, è lì che la mia decisione si è rafforzata. Vedo le mie spalle e il mio collo raddoppiati, le guance sempre più gonfie, così anche i miei seni che non riconosco più già da molto tempo, per non parlare del mio modo di trascurarmi, senza mai truccarmi o andare dal parrucchiere. Era il 2005 quando iniziai a soffrire di una brutta insonnia, mi prescrissero delle gocce che avrebbero dovuto aiutarmi a dormire, ma al contrario spesso venivo travolta da un sonno discontinuo, che m’induceva ad alzarmi. Trovai una soluzione fai da te, anzi fai da me: scoprii nel tempo che i cibi altamente calorici mi conciliavano il sonno. Non avevo tenuto conto che l’apporto ipercalorico serale avrebbe innescato una reazione a catena: tutte le calorie ingurgitate mi sarebbero bastate per restare in completa autonomia di energie fino al primo pomeriggio, saltando colazione, pranzo e merenda. Un circolo vizioso. Per anni ho combattuto, cercando di fare sport e diete, però sono ricaduta sempre nella stessa comoda abitudine. Per questo ho pensato che l’unica soluzione possibile per me fosse la chirurgia bariatrica. Giulio si è dimostrato subito poco convinto e alla rivelazione dei tre giorni di degenza ha iniziato a sbraitare in ogni stanza della nostra casa, facendomi sentire una grande egoista. Secondo lui quando decido qualcosa non ascolto il parere di nessuno, nemmeno il suo. Ho pensato che la sua fosse una reazione alla paura dell’operazione, poi nei giorni a seguire, il suo malcontento si è intensificato. Per l’ennesima volta “ero il caterpillar che avrebbe investito tutto e tutti”, soprattutto la sua pacifica quotidianità, a dire il vero.
Finalmente è arrivato il 20 dicembre e siamo in ospedale. Nell’immediato mi rendo conto che la valigia che ho portato non servirà a molto. Mi consegnano una camicia lunga con un’apertura posteriore, che dovrò indossare restando completamente nuda. Prima d’infilarla, scatto 2 foto allo specchio per immortalare il mio fisico prima dell’operazione. Li sento dal corridoio, stanno per venire a prendermi, riesco di sfuggita a baciare Giulio, che mi saluta con un sorriso sulle labbra. Non mi sento agitata, mi fanno attendere un’altra mezz’ora, poi mi portano in sala operatoria, in quel momento nella mia mente si fissa una sola immagine di me: una foto scattata due anni prima, ero con un cappello buffo al mare e, nonostante il costume intero, presa di profilo si vedeva tutto il mio gonfiore, le spalle, quegli enormi seni che non sembrano più i miei, la pancia con i suoi rotoli, quel doppio mento flaccido, allora ripeto tra me stai facendo la cosa giusta. Le luci negli occhi, le parole dell’anestesista che mi sorride…mi addormento, felice di essere lì.

Qualcosa mi sveglia: è l’anestesista che mi parla. Mi trovo nella camera antistante la sala operatoria, mi dice: “Alice si ricorda? Ha subito un’operazione”. Gli sorrido frastornata. Mi chiede come mi sento. Bene, rispondo, allo stesso tempo penso che le uniche volte in cui ho dormito profondamente nella mia vita sono state tre, tutte grazie all’effetto dell’anestesia. Sono quasi dispiaciuta per essere stata svegliata, lui mi propone di tornare in camera e io accetto volentieri.
In camera trovo Giulio, quando gli infermieri se ne vanno mi confida di essersi preoccupato: l’operazione è durata un’ora in più rispetto al previsto, non se lo aspettava, con un filo di voce lo rassicuro, sto bene.
Per un’ora e mezza nessun tipo di dolore, ma sento qualcosa che stringe lo stomaco. Sento un corpo estraneo dentro di me e non è una bella sensazione. Dopo un paio d’ore provo un dolore al centro del petto, al momento immagino che possa essere lo stomaco, poi mi domando se fosse il mio cuore a non accettare questa frustrazione. Chiamo l’infermiera e mentre attendo che una di loro arrivi, il dolore s’intensifica, mi fa male soprattutto quando respiro. Arrivano in tre, ognuna di loro si occupa di qualcosa, mentre insisto mi dicono che il dolore è provocato dall’intubazione. Mi procurano un antinfiammatorio, è uno dei più forti mi fa notare mio marito. Dopo l’effetto del farmaco sembra tutto più tranquillo, ma le luci della stanza mi danno fastidio, Giulio si adopera per fare in modo che si abbassino completamente lasciando che solo una illumini lievemente l’entrata alla stanza.
Ora dovrei riposare, ma il concetto non fa parte di me, è sera, ci provo, ma non riesco. L’infermiera del mattino mi aveva assicurato che l’anestesia mi avrebbe aiutata a dormire ma subito dopo mi rendo conto che non sarà così. Quando non dormo il mio pensiero si dirige altrove, le preoccupazioni s’infittiscono, anche le più banali, come quella di non riuscire a trovare il medico di base per i farmaci e per il certificato di malattia, poi mi convinco che, nonostante Giulio gli abbia inoltrato i certificati della mia degenza, dissentirà con forza dalla mia scelta, per non averlo prima consultato, ho paura che mi rimprovererà. La certezza di aver fatto un passo dovuto oltre che importante sento che sta cedendo. Quasi mi convinco che Giulio aveva ragione nel dire che questa decisione l’ho presa da sola. In realtà quando sono certa di qualcosa, non sento la necessità di dirlo a chi secondo me potrebbe dissuadermi inutilmente. Certo, non avevo messo in conto le insicurezze di un post operatorio, dovute a un indebolimento psicofisico che un’operazione può causare.
Giulio cerca di convincermi che è tutto a posto, il medico ci risponderà, gli ha già inviato i certificati. Poi mi rassicura che nei prossimi giorni non sarò sola, in qualche modo faremo se l’indomani dovessero dimettermi. In realtà era questo quello che si vociferava, se la notte fosse andato tutto bene mi avrebbero dimessa la mattina successiva. Giulio riesce a stupirmi, dimostra una pazienza che avevo dimenticato. Tutte le volte che mi accompagna in bagno gira l’albero intorno al letto facendo attenzione che i tubicini attaccati al dorso della mia mano destra non si stacchino, m’infila le orribili ciabatte anti caduta, da suora, che mi hanno fatto comprare, per poi rifare la stessa cosa al ritorno. Mi alzo più volte, perché il sonno non arriva e inizio ad angosciare Giulio ripetendogli cosa dovrò fare nei prossimi giorni, e che forse non riuscirò a causa di questa terribile debolezza. “Troveremo una soluzione, ora cerca di dormire”, mi risponde ogni volta. Lo vedo, è stanco, si appisola continuamente sul divano letto, ma io non gli dò tregua, cerco di fare tutto da sola chiamando e richiamando le infermiere ma lui puntualmente quando arrivano si alza in piedi interrompendo il sonno. Finalmente prendo sonno. Alle 5 mi sveglio, mi sento riposata, con la mente libera. Alle 8 mi portano un tè che posso zuccherare, tutto qui ? Dico a me stessa. Giulio non c’è. Dopo la nottata infernale che gli ho fatto passare, si è dovuto alzare presto per arrivare in orario a lavoro. Alle 9 passano due medici: la prognosi di guarigione è prevista in 15 giorni durante i quali non potrò né guidare e né alzare pesi. Mi consegnano un plico dove ci sono le indicazioni terapeutiche che dovrò seguire per i prossimi 20 giorni e un’inaspettata dieta ferrea da seguire per due mesi. Infine mi dicono che domani dovrò tornare per fare una visita col Dottor G e si congedano. Giulio alle 11 è di nuovo da me, sembra non essersi mai allontanato da quell’ospedale, dice che per strada c’è un traffico spaventoso e si sente distrutto. Lo vedo teso, non sa come farà per accompagnarmi l’indomani in visita dal dottore, dovrà di nuovo “arrampicarsi sugli specchi” per trovare una soluzione a lavoro, nervosamente mi ripete che se gli avessi dato retta, tutto sarebbe stato più semplice, per lui non erano quelli i giorni in cui avrei dovuto operarmi. Riesce a farmi sentire di nuovo in colpa. Non avevo preso in considerazione quel tipo di variabili: come un’uscita anticipata dall’ospedale per poi dover tornare il giorno dopo, oppure la fragilità e il dolore fisico che mal sopporto e che mi fanno dipendere completamente da lui.
A casa dei nonni rivedo Marta, è felice che la sua mamma sta bene, le chiedo solo di non abbracciarmi forte, evitando di toccarmi la pancia: ho delle ferite che hanno suturato con dei punti, le spiego. “Ti hanno fatto male?”. La sua espressione è triste, poi mi consola, “non ti preoccupare mamma mi prenderò io cura di te”, le dò un bacio e sorridendo la ringrazio. Decido di distendermi sul divano, ho freddo, Marta mi porta un doppio cuscino e due coperte, mi sento stanca e l’addome mi fa male, cerco di addormentarmi nonostante l’agitazione tipica di Marta anche se questa volta s’impegna a muoversi piano, e inaspettatamente, la trovo piacevole e di compagnia. Distesa, i pensieri si riaffacciano. Di nuovo il dubbio: avrò fatto la cosa giusta? Sento lo stomaco sotto sopra, sulle indicazioni trovo scritto oltre ai farmaci che dovrò assumere e alla dieta che dovrò seguire, anche un numero di telefono da chiamare nel caso in cui dovessi avere dei malesseri specifici. In caso non passino dicono di raggiungere il più vicino pronto soccorso. Con questa operazione sento di aver tolto qualcosa alla mia famiglia, mi sento dimezzata, insicura, diversa, soprattutto meno affidabile sia fisicamente sia psicologicamente. Per fortuna mi chiama un’amica, m’infonde coraggio dicendomi che quello che provo è naturale, mi tranquillizza sulle punture sottocutanee che devo fare e mi ricorda che posso farmi recapitare a casa la spesa. Sento nelle sue parole quella forza di cui ora sono priva. Finalmente mi addormento, mi risveglio solo al ritorno di Giulio, che mi riporta subito in una realtà intrisa di altre preoccupazioni: potrà accompagnarmi alla visita medica domani, ma dovrò trovare qualcuno a cui lasciare Marta; non posso credere che per ogni cosa risolta se ne crei un’altra da risolvere, a tutto questo si aggiunge una grande stanchezza. L’indomani dovrò restare sola con Marta e la cosa m’impensierisce. Lei è vivace e al chiuso lo è di più, sento di avere giusto le forze per poter parlare un po’, poi mi dovrò sdraiare sul letto. Guardando la dieta mi rendo conto che dovrò pulire gli ortaggi, tagliarli e metterli in una pentola piena d’acqua, non so se ce la farò.
Il giorno della visita post operatoria è arrivato, ci mettiamo due ore per arrivare all’appuntamento. Durante il tragitto Giulio sbuffa continuamente, è stanco del caos natalizio. Lo osservo, guardo quell’uomo di cui mi sono innamorata 26 anni fa, fondamentalmente buono, paziente, soprattutto nei riguardi di una persona che non riesce mai a trovare la quiete. Giulio non tarda a ricordarmelo dopo la visita che è andata bene e per cui mi sento felice, spezza quel momento di mia assoluta serenità, rimproverandomi per il fatto che ho sempre qualche impresa da compiere. Le lotte con la mia famiglia, la casa nuova che ho voluto comprare, adesso questo: non riesco proprio a vivere una vita tranquilla con lui e i ragazzi. Le sue parole mi penetrano intimamente, come una lama tagliente, fanno riaffiorare emozioni passate, accantonate per andare avanti ma soprattutto per guardare oltre, cosa che mi ha sempre aiutato. Mi rivolgo al passato solo quando ho dei momenti di cedimento, per considerare come ero e come sono diventata: non rimpiango mai le decisioni prese, nessuna di esse Se ho creato sofferenza è perché l’ho provata anch’io: nel libretto delle istruzioni sui grandi cambiamenti non c’è scritto che la felicità si raggiunge senza dei sacrifici, o senza perdere qualcosa di noi. Io e Giulio c’eravamo innamorati, perché caratterialmente diversi, ma complici nelle scelte di vita, lui è stato la mia parte mancante, e io ho sempre creduto di essere la sua, mi ha sempre seguita e io lo adoravo, ma è da un po’ di anni che tra noi c’è sofferenza.
Durante la visita il medico mi ha cambiato i cerotti, il 30 dovrò togliere i punti metallici, mi parla della dieta che dovrò seguire, dunque la situazione è più lunga di quanto immaginassi. Durante questo mese e mezzo ci sarà una rieducazione alimentare, pian piano la dieta da liquida passerà a semiliquida, da semisolida a solida, fino a fine febbraio quando dovrò sostenere altre due visite, una di queste con la nutrizionista che mi dirà come proseguire.
Nel frattempo è dura, soprattutto durante le feste con i familiari, ho visto girare delle pietanze che avrei voluto congelare per poterle mangiare anche tra un anno. Poi le domande su come mi sentivo e sul perché di questa operazione, domande a cui avrei voluto non rispondere. Con il passare dei giorni la fame anziché ridursi aumentava, non ho mai sofferto di crampi, pensavo che la riduzione dello stomaco mi avrebbe aiutato, invece tutt’altro. Per non parlare della sensazione di dipendenza e di fragilità. Non avevo messo in conto questa fase, per lo meno non così, la mia amica che c’era già passata mi ha confermato che questa era la transizione più difficile dell’intera operazione.
Il 30 dicembre mi hanno tolto i punti, ora potrò fare una doccia senza evitare di toccare le ferite. Continuo a seguire la dieta, capisco che l’unico modo per risparmiare energie è riposare il più possibile e impegnare quelle che rimangono solo per le cose più importanti. L’escamotage funziona, però devo stare attenta a non rimanere troppo a lungo a digiuno, a mangiare negli orari che mi sono prefissata. Lo vedo allo specchio: il mio corpo si sta assottigliando, lo ha notato anche il Dottor G durante la visita del 5 gennaio.

Oggi è il 24 gennaio e sono dimagrita quasi 10 chili, mi vedo diversa, la nuova me sta riemergendo, riesco a portare la macchina e ad alzare pesi, non ho riacquistato a pieno le forze, dovrò aspettare ancora un altro mese per questo, però mi sento più sicura di me stessa, specchiarmi è finalmente un piacere, sono riuscita anche ad andare dal parrucchiere, ho fatto fare delle mèches per schiarire quel nero che m’incupiva, vorrei abbandonare gli abiti scuri da cui non riesco a staccarmi, per ora sto godendo di quelli che ho perché cadono morbidi su un fisico più asciutto. Cedo alla tentazione di acquistare qualcosa di nuovo in offerta, anche se mi ero ripromessa di non farlo, per indossare prima o poi quegli abiti di taglia più piccola conservati perché mi piacciono tanto. Ma come si fa a non festeggiare una rinascita senza acquistare qualcosa di nuovo che segni l’inizio di una nuova me? Sono felice anche se la strada è molto lunga, dovrò ancora superare degli ostacoli che mi bloccano. Poi c’è la miopia che, per via degli occhiali che mi coprono il viso, mi spinge a non truccarmi. Inizio a pensare che potrei fare l’operazione laser per rimuoverla. Appena mi sarò ripresa completamente. Mi vedo già, mentre il vento accarezza i miei capelli e il sole il mio viso, con il più bel paio di occhiali da sole senza gradazione.