di Amelia Martin

Uno.
Salgo il primo scalino e le ginocchia scricchiolano.
Mi devo ricordare di prendere gli integratori. L’ortopedico mi ha avvisato, alla mia età se non faccio la cura dovrò operarmi e mettere una protesi. Una cura che forse non servirà a salvarmi le ginocchia, mi illudo di riuscire a recuperare il tempo perduto e tutto quello che non ho fatto prima, quando ero una ragazza e ancora prima da bambina. Nell’elenco non scritto delle regole c’era al primo posto l’obbligo di ubbidire al padre, che molto spesso non aiutava in casa, né si occupava dei figli e tantomeno della moglie. Io non ci facevo caso all’inizio, investita di quell’amore di figlia che lo faceva apparire speciale, indispensabile anche semplicemente se martellava un chiodo sul muro e magari ci bestemmiava sopra. L’unica cosa a cui facevo caso, era la sua capacità di trasformare in un secondo una giornata felice con cielo limpido in una triste e piena di elettricità. Bastava poco, una battuta, anche solo una parola di troppo.
Avevo dodici anni ed ero a casa dei nonni paterni, saltellavo felice con una mela in mano, giusto il tempo di addentarla, tra un saltello e l’altro ed ero caduta in piscina, con la mela in bocca.
La piscina era piena a metà, visto che la stavano pulendo e io finii in piedi, dritta come un piombo con la melma fino alla vita. Qualche risata intorno a me e una frase, ti sta bene, tra le altre. L’unico a non alzarsi dalla poltrona era stato lui. Avevo lanciato la mela lontano, con rabbia e frustrazione. Fu la prima volta che non mi sentii amata, ma giudicata una bambina inutile con il sapore di una mela acida in bocca.
Due, tre, altra rampa di scale.
A ogni scalino mi sento peggio, l’odore di muffa del seminterrato comincia a sentirsi, evidentemente qualcuno ha aperto le finestre nei piani alti. L’aria fresca del cortile si mescola al puzzo del sottoscala e arriva fino al primo piano. Sulla porta della famiglia Martini c’è ancora la coccarda con le bacche rosse e la scritta Auguri. Per loro il tempo si è fermato, oppure non sono ancora tornati dalle vacanze.
Altra vampata di muffa, che si confonde con un odore buono di pomodoro e basilico, odore di famiglia che si riunisce davanti a una tavola per scambiarsi una parola, un sorriso e forse amore. La signora Flaminia, che abita di fronte ai Martini, ancora cucina per tutta la famiglia e, anche se non la vedo, me la immagino sempre con le calze calate fino alle ginocchia, mai alla stessa altezza. Le ciabatte di spugna unte e gli occhiali spessi sul naso. Con il marito disabile e un figlio divorziato in casa. Prendo un gran respiro, un po’ perché devo ricominciare a salire e un po’ perché il ginocchio mi fa ancora male. Ieri ho esagerato con le faccende domestiche e salire sulla scala per pulire il lampadario è stato troppo, ho sentito un crack e un dolore tremendo. Ho maledetto me stessa, per essere invecchiata così tanto, per essere così sola. Avrei potuto cadere da quella scala e nessuno sarebbe venuto a salvarmi. Da bambina facevo le scale a tre scalini alla volta, arrivavo in cima senza fiatone. Oggi mi sento stanca, asciugo il sudore sulla fronte, la mano accarezza i capelli raccolti e la prepotenza di quelli che non ho fatto in tempo a colorare.
Quattro.
Quasi al penultimo scalino una voce mi blocca, Signora buongiorno, c’era la televisione accesa tutta la notte e un volume altissimo, non siamo riusciti a dormire. Buongiorno signora, rispondo, prendendomi una pausa, si allunga il tempo di arrivo al pianerottolo. Mi dispiace, vedrò cosa posso fare. Per favore i miei bambini non dormono facilmente e quando riesco a farli addormentare devo poi ricominciare tutto da capo.
La capisco signora, provo a dirle con la faccia piena di commiserazione, ma in realtà penso a un’altra difficoltà e mi viene un crampo allo stomaco. La dirimpettaia si scosta una ciocca di capelli, uno dei gemelli arriva a tirarle la gonna, mi guarda e si nasconde dietro la madre. Faccio un sorriso a quel bimbo impaurito che aggrotta le sopracciglia. La mamma gli accarezza la testa, lo consola.
Farò del mio meglio perché non succeda più. Lei mi guarda con una piega strana della bocca, si sta trattenendo dal dire altro. Chissà cosa.
Mi saluta e chiude la porta, del bimbo intravedo solo una manina paffuta che sparisce.
Dopo tanti anni ancora il dolore, il senso di nausea.
Faccio entrare la chiave nella serratura, arriva a metà e non gira, la serratura è chiusa dall’interno, un’altra chiave è inserita dall’altro lato. Torna la nausea.
I crampi allo stomaco. Per un attimo cerco di calmarmi, con la mano affondata nel ventre, cerco di staccare il dolore dal mio corpo, da me.
Il respiro si spezza.
Suono il campanello, una volta, poi due, tre. Niente. Nessuno arriva ad aprirmi, nessun rumore.
Arriva la paura, il senso di colpa, l’impotenza.
Chiamo al telefono e dopo qualche squillo risponde, gli dico che sono alla porta, di venire ad aprirmi. Nell’attesa cerco di respirare e mi preparo. Arriva preceduto dal ticchettio costante e un rumore di trascinamento. Apre la porta e la lascia socchiusa, prosegue il rumore. Mentre entro con le buste della spesa, è già alla poltrona e sprofonda allargandosi come una macchia d’olio indelebile sulla tappezzeria.
Ciao papà, ho suonato tanto. Non sentivi il campanello? Non risponde, con gli occhi chiusi e il mento alzato. La barba di due giorni. Faccio finta di non vedere il disappunto, inizio a togliere la spesa dalla busta, metto in ordine in dispensa e controllo il frigo. In cucina è rimasto solo l’eco di mia madre, che mi chiamava e sui fornelli la sua presina preferita, quella di stoffa cucita con i ritagli conservati da anni. L’amore che metteva nel preparare il pranzo della domenica e le sue parole dolci nei momenti di crisi. Abbi pazienza, mi ripeteva Ricordati che questa è una famiglia e ci dobbiamo voler bene.
Dobbiamo, come se amare fosse stato un dovere, in buona e cattiva sorte per tutti soprattutto i figli. Il ricordo dolce di lei si mescola al suo fastidioso desiderio di nascondere la verità, le difficoltà. Mi sono sempre sentita in un ruolo non mio, obbligata a portare avanti delle scelte che non avevo fatto.
Torno in salotto e tiro fuori il suo caffè decaffeinato per la moka, questo l’avevi terminato? mi giro a guardarlo per vedere se mi rivolge la parola. Mi guarda con l’occhio sbarrato e in un attimo scatta. Che ti importa di quello che mi manca? Potresti venire a stare con me papà sarebbe più facile aiutarti. Ora non mi guarda e io insisto non ti fa bene stare qui da solo, peraltro non cammini bene e hai bisogno di un aiuto in casa. Che ne sai tu di cosa ho bisogno: io non voglio nessuno a casa mia, tantomeno te, che sei una disgraziata. Prendo aria cercando di spegnere quello che si sta accendendo. Sarei una disgraziata perché voglio vivere la mia vita? Perché non mi sono mai sposata?
Ma stai zitta che non ne hai mai fatta una giusta, era meglio che mi prendevo un cane al posto tuo, almeno mi faceva compagnia.
Cerco di rimanere lucida e di non farmi prendere dalla rabbia, l’ennesima offesa, l’ennesima provocazione. Non mi bastano le scuse, la possibilità di capire quello che mio padre ha passato da bambino per arrivare a questo.
Non mi basta.
Ancora il dolore e la mano sul ventre.
Giro gli occhi verso il comò e vedo la bottiglia, ambra trasparente e vuota, la causa di tutti i cambiamenti di umore. La consolatrice di ogni malanno, l’amante che calma e che rende schiavi.
Capisco in quel momento che qualche magnanimo parente gli ha fatto visita e, da buon samaritano, ha esaudito il desiderio di un ammalato. Evito di chiedere, tanto so già che non ci sarà risposta e comunque non servirebbe a nulla.
In apparenza la rabbia è sopita, nascosta da un velo di indifferenza.
Lo vedo frugare nel marsupio e mi chiedo cosa stia cercando, ma non chiedo. Non voglio insistere, non voglio smuovere il dolore che già è insopportabile.
Tieni, mi dice. Col tono asciutto e severo di un padre.
Con la mano allungata verso il tavolo, lancia una banconota da cinque euro, una misera banconota. Mi serve l’anti acido in farmacia, tieni che sei una pezzente e non hai neanche queste.
Intravedo i soldi caduti sul tavolo e non ho neanche il tempo di riflettere, stavolta non posso respirare e non voglio. Lo tiro dalla camicia, che si scuce leggermente. Riesco a spostarlo così com’è da quella maledetta poltrona, non so dove trovo la forza ma è lì tutta la forza che non ho avuto negli anni. Arriva alla balaustra del terrazzino senza resistenza, neanche fosse una piuma.
Bastano cinque passi, il tonfo quasi non si sente, in una cittadina piena di traffico e rumore, si confonde con il fischio di un allarme che suona.
Mi affaccio dal balcone ma il corpo non c’è.
Poi sento il rumore dello sciacquone al bagno e poi il ticchettio e il trascinamento.
Un racconto terribile. Per certi versi mi ricorda mio padre, quando cocontestandolo mi dimostrava il suo disprezzo vrs le mie scelte. Ho indelebile l’espressione del suo viso schifato quando mi ha detto che l’avevo perso, ho avuto la forza di rispondergli che non era riuscito mai conquistarmi. Alla fine del racconto penso che la protagonista, in cuor suo, immagini la caduta per una disperazione dovuta all’ennesima umiliazione. L’autrice mi ha colpito sia nel modo di scrivere che nel trattare un argomento così delicato.
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