di Lorenza Cianci

Di notte, c’è tempo di guidare lenta su una strada precisa, affilata come un filo.
In questa parte del giorno che crepa con tutta la sollecitudine possibile, la strada che guido è una strada, ormai, senza più urgenza. Sono custodita, io sola, dai segnali piantati per via: i guardrail luminosi, i dossi sporgenti, gli avvisi lampeggianti del telerilevamento, il bustone bianco abbrancato al ranuncolo secco della boscaglia posticcia, che batte al muro del vuoto come bandiera.
C’è tempo: di guidare lenta verso una tana, protetta e predestinata, che attende nell’albeggio.
Abbiamo preso tutto il necessario: le due valigie, i libri tattili, le galosce a forma di alligatore. Il piccolo tornio per fare pensierini di creta e la grande tenda per rintanarci all’aperto, quando la sera è buona, a raccontarci i segreti: che Mirella mi racconta i suoi e io, i miei, proprio non posso.
Ho fissato il seggiolino al sedile posteriore, le ho stretto i cinturini, stretti stretti. Le ho dato un bacino, le ho detto questa notte, sei bella come una stellina sorridente. Le sue dita bianche hanno sfrigolato elettrizzate nell’aria consumata e fatta dal nostro ultimo alito del giorno.
Ho risposto alle sue domande, una per una, per bene, l’ho rassicurata: quando arriveremo, giocherai con la Tea. Le darai il collarino che le abbiamo comprato al negozio dei cani, l’altro ieri: il collare fucsia. Mirella lo pronuncia così collo fuzzia.
Parto, finalmente. Guido.
Santifica le feste. Mio padre, lui lo diceva sempre. Quel giorno, ci costringeva a metterci spalle dritte petto in fuori dietro una torta di panna montata e fiorellini di marzapane: io, mia sorella maggiore, i compagni della scuola estiva. Scattava due, tre foto e poi era contento. A fine luglio eravamo già tutti alla casa vacanze, ed è per questo che la cornice dei miei compleanni è sempre il lago. Noi bambini, in costume intero o in pareo, venivamo fuori dal rullino con un grosso sorrisone, petto in fuori spalle dritte. Mia sorella, quando riguardava le fotografie di noi piccole alle feste diceva sempre guardaci, in questa foto sembra che ci hanno sparato una parolaccia in faccia: tutti scandalizzati.
Questa superficie è affilata come un filo. La macchina viaggia come un bolide solitario nella notte, fonda fonda. Affondo le mani nella pelle brunastra del volante, tengo gli occhi fissi nel retrovisore.
Quando Mirella dorme, studio, dal retrovisore, i suoi lineamenti: il profilo. La luce: morbosa e bianca, sul suo volto senza difesa, che dorme profondo. Fisso il suo sterno: che si alzi e si abbassi stabile. Una mamma premurosa fa così.
Mia madre, era colpa sua. Per farci venire naturali nelle fotografie degli anniversari mitragliava parole alla rinfusa che non avevano niente a che fare con il contesto. La sua passione era dire il nome dei frutti, esclamare banana! o pronunciare il nome di un frutto esotico tipo papaya.
Mirella, la vedo dal retrovisore, ha riaperto gli occhi: sto nei suoi occhi. I suoi occhi stanno: negli alberelli calvi, al di là dal finestrino, nelle prime case accese, nelle sconcezze bollate ai muri, nei cassoni di spazzatura sbrandellati dai gatti randagi, nella gente, poca e sola, che passa, con la testa bassa, che vorrebbe attraversare la strada nera. Nelle cose del primo giorno, che corrono, spaventose, fuori. Mi pare di capire che mia figlia si stia domandando, in realtà, chi viaggi: loro o noi. Se loro, verso dove. Se noi, verso Tea. O se stiamo viaggiando, ognuno a modo nostro, tutti quanti.
All’alba, compirò quarant’anni.
Noi, adesso, nella macchina bolide, siamo contente.
Lasciare gli spazi suburbani. Arrivare fino alla campagna: all’orizzonte, è una sacca estesa di erba gatta paglierina, nel cielo iniettato di un sangue buono, embrionale, del giorno. Bussiamo ai cancelli, ci facciamo accogliere: il muso della Tea, la nonna. Mamma fa le feste: le solite feste che fa una nonna, ma lei è sincera, e lo vedo. Mirella ha saputo che la vicina ha i canarini, nella gabbietta del giardino, che fanno chiasso tutto il giorno (e le meringhe, nella vetrinetta del cucinotto).
“Chiasso” è parola che abusa sempre mia madre, quando chiacchiera al telefonino, insieme ad altre cose madornali, pure le parolacce. Mirella la pronuncia così chiazzo.
Questo de “i canarini che fanno chiazzo tutto il giorno” è diventato, per mia figlia, un legittimo chiodo fisso. Ci pensa, in particolare, prima di andare a dormire. Mamma: la nonna non dorme con “i canarini che fanno chiazzo tutto il giorno”.
Per mio padre, santificare i compleanni era a tutti gli effetti comportarsi da cristiani per bene. Lo stabiliva la sua personale interpretazione del terzo comandamento. Mia sorella non aveva preso proprio niente da lui e, se si trattava di feste e banchetti, si impegnava a fare la parte della scioperata di turno. Quando è morta credo che papà abbia pregato per lei il doppio di quanto avrebbe potuto fare se, a morire, fossi stata io.
Affido Mirella alle braccia di nonna. Le bacio entrambe, piccola e vecchia.
Santifica gli anniversari.
Saluto alle mie spalle, con i palmi delle mani in aria, che si aprono e si chiudono come un ritmo: ciao, a dopo. Metto le ciabatte e parto, io sola, verso il lago. Corro: attraverso una superficie ghiaiosa e un tempo contato.
Mi stendo, a mezzo busto, sulle assi del pontile, al primo sole, chiusa nella giacchetta e nel fisciù. Sento pietre sporche, di terra bianca e di ragnetti rossi, sulla schiena. Attendo, in religioso silenzio, il caldo. A quel punto, sfilo dalle spalle: fisciù e giacchetta.
Mi convinco supina, e irrimediabilmente, che nel cielo abbiano abitato per quarant’anni le rondini. La cappa mattutina dell’acqua ha una consistenza schifosa, come la saliva sputata dai maschi. Stesa, sono come macchiolina che si spande, metrorragica e marrone, in mezzo alla secrezione lattescente della saliva sputata. Sto, distesa e sola. Mi chiedo chi altri abiti il cielo, questa mattina.
Ho quarant’anni.
Santificare ogni anno di questi quarant’anni.
Sto, finalmente, nel pensiero delle mie sequenze temporali passate.
Ricordare chi ho amato: le cose, fatte e finite. Non provarne alcuna vergogna. La mia calligrafia di decenne. Il primo bacio, umido, di un ragazzo acneico, sulla mia bocca.
L’ostia della comunione che si attacca al palato. Fare slap! con la lingua, sputarla tutta nel fazzoletto di carta. L’ho vandalizzata.
Reperire i reperti come questi. Raccattarli tutti: restituirsi il senso storico del tempo spartito con gli altri, il tempo comune degli insieme condivisi, la loro solennità. Turbarsi, alla fine, come può fare solo la coscienza del rimpianto.
Non andare troppo lontano. Riflettere sugli espedienti esistenziali più recenti. Prendo coscienza del loro essere tali.
La paura di finire sotto il rinculo delle auto in strada, da piccola. Gli occhi di Mirella, incollati al finestrino. L’insonnia, l’amenorrea.
Inquadrarsi, al vetro dei cessi comuni delle femmine quando, da ragazza, stavo allo studentato dell’università: trovarmi brutta, ripugnante, o tutto sommato normale. Sentire di stare bene, sentirmi impari. Sentire le altre femmine, su di me, al vetro dei bagni comuni delle femmine: che si truccano, si sfregano i denti, si spazzolano, spidocchiano dalla spazzola al pavimento, fanno risolini, svampite, parlano di sesso. Contenere tutto. L’invidia.
Privarmi delle mie intersezionalità: non ne ho mai avute. Rimanere viva. Sopravvivere ai maschi che parlano solo di sé stessi, per tutta la durata di una cena.
Mettere il profumo: tollerare l’odore degli altri e della vita degli altri nelle mie narici, sotto i portici di Bologna, la città dove stava l’università. Nel taschino della borsetta, trovare un assorbente piegato pulito.
Stare nel mezzo, tra una dimenticanza e la perdita: tra l’amnesia e la demenza.
Imparare a memoria i vocaboli di Tea. Concepire. Aspettare, sola, che Mirella uscisse dal mio corpo, insieme alle acque e alla mia urina dello sforzo. Darle un bacino sulle piccole dita bianche che fanno aquiloni elettrici, in aria. Dirle sei bella.
Mia sorella maggiore.
Contenere tutto. Ricentrarsi. Stabilirsi in sé. Boccheggiare una parola con la punta terminale della bocca. Pronuncio: confesso tutto. Con-fes-sso.
Santificarsi.
Riabbottonarsi la giacchetta. Ripercorrere il camminamento verso il lago, all’indietro, in ciabatte: dal lago ai cancelli di mamma. Mi faccio accogliere. Entro nella casa calda, calda e umida come la placenta, di mamma. Ridere di Tea scodinzolante sul tappeto di Persia, con il collarino fucsia splendente. Mia madre è seduta di fronte a mia figlia e la guarda mangiare con una forchetta verde di plastica rigida. Non si somigliano, nemmeno a pagarle. Mirella mangia con la bocca tutta smascellata la pasta asciutta che le ha fatto nonna. Mia figlia la pronuncia così la patta acciutta.
Mi siedo a tavola, faccio parte di loro: è la mia famiglia. Do un bacino sulla bocca tutta smascellata di mia figlia e le dico sei bella come una stellina sorridente.
Dopo, soffieremo le candeline, ci vestiremo a festa e faremo un grosso sorrisone: avremo rispettato, così, il comandamento di papà.