di Silvia Trombetta

E’ qui davanti a me. Grande. Maestosa direi. E’ vuota. Completamente vuota. Fino a ieri sera era piena. Piena di libri, DVD, musica, fumetti. Piena della mia vita. Della nostra vita. Libri miei e suoi. Libri nostri. Libri che ho amato, che hanno scritto pagine essenziali della mia vita. Libri che non ho mai letto, che forse leggerò o che non leggerò. Libri che ho dimenticato di aver letto. Piena ancora dei suoi libri, che sono diventati miei perché li ho custoditi in questi anni e perché li ho letti in quanto suoi, perché lui li amava: come se leggendo i suoi libri potessi incorporare un po’ del suo mondo. Libri suoi che non ho mai letto perché erano troppo lontani dal mio mondo. Libri della sua storia familiare, gialli per il tempo, in altre lingue, che ho custodito io per lui. Come le fotografie. Come tante piccolezze, i nostri ricordi, i biglietti dei viaggi, le lettere e i biglietti d’auguri. Sono sempre stata io fra noi la depositaria della memoria, la custode delle piccole cose. Non ha mai capito, credo, questa mia cura attenta del passato, della storia, del ricordo. Non ha mai capito, credo, molte cose, e forse anche per questo ora la nostra libreria è vuota. Chissà se ora che i pezzi della sua storia – i libri, le foto – tornano a lui, li custodirà. Chissà se ne avrà cura. O se li lascerà chiusi negli scatoloni in cui glieli do a sbriciolarsi al tempo, chiusi come tutte le scatole piene di dolore che non ha saputo aprire. E forse anche per questo la nostra libreria ora è vuota. Non mi riguarda più. Da tempo ormai. E in effetti mi chiedo perché io abbia continuato a custodire in questi anni non solo la mia storia, ma anche la sua, perché abbia atteso il trasloco in una casa in cui non posso portare la nostra libreria per sciogliere e separare i nostri libri. E mi chiedo, se nella mia nuova casa avessi potuto portare la nostra libreria, avrei portato anche i nostri libri o solo i miei? Un pezzo della nostra libreria però l’ho portato, anzi due: li ha voluti nella sua camera nostro figlio. E dentro ci ha sistemato con cura alcuni nostri libri – oltre ai suoi – e i miei LP, le mie vecchie audiocassette, i miei libri di poesia. Lui non ha mai amato né gli uni né gli altri. In tutti i lunghi anni del nostro amore ho smesso di leggere poesia (perché? lui la snobbava, con quella sua alterigia difficile da fronteggiare, ma io perché ho smesso?), ma ancor più ho smesso di scriverne. Anzi, ho smesso del tutto di scrivere, o quasi, solo qualche rara cosa di poco valore. Perché? Nella libreria ho ritrovato anche i miei quaderni di un tempo, quelli di quando ragazza scrivevo, cose ingenue -è vero-, ma mie, il mio mondo di allora. Prima di infilarli nelle scatole mi sono seduta e li ho aperti, con il palpito con cui si apre un libro antico e ho scoperto che l’ultima pagina la scrisse lui. Gli avevo mostrato il mio quaderno, come si fa quando all’inizio di un amore si rivela la propria anima con pudore e desiderio al tempo stesso. Lui scrisse un commento, una dedica augurandosi che da allora in avanti potesse essere lui il mio diario confidente. In effetti così fu. Tutte le pagine seguenti sono bianche. Venticinque anni di pagine bianche. Perché? Perché fu lui il mio confidente? Perché avevo lui accanto con cui condividere e dunque non avevo ragione di scrivere? Forse. Ma non l’ho sempre avuto accanto, e non sempre come avrei avuto bisogno. E non tutto potevo e volevo condividere. E allora? Perché ho chiuso quel quaderno, l’ho messo nella libreria e ho messo a tacere quella voce così a lungo? E la poesia, anche quella ho messo a tacere. Non c’era spazio fra noi per quella voce, credo. E io non ho lottato perché ne avesse. Venticinque anni dopo ho ritrovato quella voce ancora intatta, matura, come una falda sotterranea che sgorga in superficie. La musica invece sottoterra non c’è mai voluta finire. E’ rimasta un mondo solo mio che si espandeva nei momenti di solitudine e doveva abbassarsi o spegnersi quando eravamo insieme. Neanche per questo ho lottato. Per troppe cose non ho lottato abbastanza. Forse anche per questo la libreria ora è vuota. Ho tenuto il volume basso, ho lasciato il silenzio o ho usato le cuffie pur di preservare la musica in me. Poi, venticinque anni dopo, la musica è esplosa, è alta in ogni angolo della mia vita. E ora è nella nostra libreria nella camera di nostro figlio che ascolta i miei dischi a tutto volume e io –quasi vergognandomi- gli chiedo di abbassare. Eppure fu lui a farmi scoprire alcuni miti che io nella mia adolescenza ovattata e timorosa conoscevo appena: De André, De Gregori, li ascoltavamo insieme, i primi mesi, forse i primi anni. Erano nostri. Poi sono rimasti miei. Li ha rinchiusi in quelle scatole piene di dolore che non sapeva aprire. Diceva che la musica lo emozionava troppo e lo faceva piangere in effetti, e a quel dolore preferiva il silenzio. La musica è rimasta solo mia, ho accettato che fosse così, come ho accettato molte altre cose, e si è mescolata con quella che ho scoperto dopo, altri incontri, altre scoperte. Solo mie. Nessuna scatola di dischi per lui. Solo libri. Di alcuni ne ho trovati addirittura due copie, quella mia e quella sua, ho fatto fatica a capire quale fosse di chi e ho scelto a caso quella da mettere nel suo scatolone. Cosa importa ormai? Altri li abbiamo letti insieme. All’inizio del nostro amore leggevamo insieme. Uno di noi leggeva e l’altro ascoltava. A turno. Questi libri li ho tenuti. Li ho portati con me, nella mia nuova casa, nella mia nuova libreria come si porta un oggetto prezioso. Fu parlando di libri che ci innamorammo. Il nostro libro Galeotto fu I fratelli Karamazov. Per me fu il segno. Finalmente, dopo tanto cercare avevo trovato un’anima simile. Non potevo perderla. E fu così bello, così straordinario trovare un’anima simile che forse persi la mia. Smisi di scrivere, ascoltai la musica a basso volume, lasciai al buio tanti angoli della mia anima. Altri angoli però si illuminarono. Angoli che non conoscevo. Ma troppi rimasero al buio. E quando volli tornare a illuminarli perché il buio ormai prevaleva sulla luce e io stavo morendo, quel legame fra anime simili si spezzò. Non era più un’anima simile alla mia, ma un’anima ostile alla mia. Dovevo scegliere fra il buio e la luce. Ho scelto la luce. E dopo tanti anni mi ritrovo a svuotare la nostra libreria. I fratelli Karamazov sono nella mia nuova libreria. E’ stato più bello incontrarci che doloroso separarci. Ci sono libri che abbiamo regalato l’uno all’altra o che abbiamo scoperto insieme: “questo libro è bellissimo, leggilo” e poi ne parlavamo e discutevamo insieme. Poi lui, lettore molto più prolifico di me, seguiva il filone a lungo, io presto prendevo altre strade, catturata da nuove curiosità. E così ho ritrovato quasi tutti i romanzi di Scerbanenco o di Carlotto e Benni e li ho messi in uno scatolone per lui. Cosa è mio? Cosa è suo? Che senso ha questa domanda oggi? Libro dopo libro abbiamo riempito una libreria e una vita, abbiamo generato e cresciuto figli (ci sono i libri che consultavamo durante le gravidanze…), come posso suddividere la nostra vita insieme in scatole diverse, le mie e le sue? Eppure la libreria va svuotata e smontata. La nostra vita non c’è più, si è già smontata, è rimasta solo questa libreria come un vecchio simulacro. Ora c’è la sua vita e la mia vita. La mia nuova casa.
I nostri libri li porto con me, li metto nella mia nuova libreria e forse alcuni li metterà nostro figlio nella parte della nostra libreria che ora è nella sua nuova stanza.