di Fabrizia Fedele

Sto bene, me lo ripeto davanti allo specchio, mentre esamino i solchi sotto gli occhi. Non sono occhiaie, sono dei solchi lividi che ricopro di più strati di correttore. Sorrido. Sto bene.
Metto il fondotinta, la terra, il fard, la matita dentro e fuori l’occhio, l’ombretto e il rossetto, senza dimenticare di spennellare le sopracciglia. L’effetto bonne mine, come dicono i francesi, è assicurato.
Sono pronta.
Alla lezione di Feldenkrais sono tutte vecchie. Non so perché. Il metodo mi sembra valido per tutti, eppure qui sono solo le donne anziane a essere pronte a “migliorare l’organizzazione del proprio corpo in azione”. Quasi tutte hanno dei corpi deformati. Una ha il bacino completamente storto, sembra il tronco di un albero modellato dal vento, un’altra ha il ventre gonfio come un pallone, i piedi sformati. Sono dei corpi senza il punto vita, senza alcuna grazia femminile.
Mi chiedo tra quanti anni sarò come loro.
Nello spogliatoio, accalcate nel poco spazio disponibile, quelle che si conoscono si parlano senza guardarsi, guai a soffermare lo sguardo sulle vene varicose altrui, in cambio potrebbe colpirci quello sulle smagliature o sulla cellulite nostra. Meglio evitarsi.
Eppure queste donne sembrano vitali, si lamentano che per via del blocco di via Induno non riescono più ad arrivare con la macchina.
Io non capisco perché non usano Google Maps.
Però io non guido e loro sì.
Mia madre ormai non potrebbe praticare Feldenkrais, si muove al rallenty e fatica a trovare l’equilibrio senza supporti.
Certe volte penso che finga di barcollare, invece non finge.
Un’ulteriore pena che si aggiunge alle altre.
Dovremo andare da un neurologo. Dal cardiologo siamo state: tutto bene, a parte una “minima falda di versamento pericardico ubiquitario”, quanto basta per posticipare la sua immunoterapia. Più fatica per me a organizzare le analisi e gli appuntamenti medici, senza dimenticare i referti, le posologie, la pazienza, la calma, il sorriso, la deferenza e i ringraziamenti. Se sono brava (abbastanza) e i medici bendisposti, forse ci può scappare anche qualche battuta rincuorante.
E per fortuna non vado in ufficio.
Ieri la commessa mentre provavo una camicia, mi ha detto che la potevo indossare anche per andare in ufficio. Al che, dicendole che non lavoravo “in ufficio”, mi ha detto ridendo meno male!
Meglio così, no?
Ormai scrivo da qualche anno e penso di aver fatto bene ad abbandonare la gastronomia per la scrittura creativa.
Anche prima non andavo in ufficio, al massimo in redazione e poi a casa, praticamente come adesso. Eppure essere giornalista e critica gastronomica e dire di esserlo suscitava rispetto negli interlocutori. In Italia almeno, dove tutto ruota intorno al cibo.
La scrittura creativa invece desta sospetto nel prossimo, pare ci si debba scusare o giustificare.
E la libertà è una chimera. Si deve sempre rendere conto a qualcuno. A qualcuno che non è mai benevolo.
E poi la casa rende il tempo vischioso.
Qualche sprazzo di gioia lo trovo con le tortore che vengono alle mie finestre. Ormai a ogni finestra di casa. Arrivano, guardano dal vetro e aspettano il cibo. Le nutro con i semi di girasole di cui sono ghiotte. Prima davo loro pezzetti di fetta biscottata e biscotti, poi mi sono attrezzata con i semini.
Mi fanno persino le feste quando mi affaccio. Svolazzano intorno alla cornice della finestra e qualcuna più temeraria entra fa un mezzo giro e poi esce.
Forse la mia è una gioia senile. Indice di senilità precoce.
Mercoledì ho appuntamento con una psicoterapeuta.