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di Ilaria Borrelli

Ci risiamo, puntualissime. Non c’è film o cena che non si possa interrompere quando arriva la telefonata di Elisa. Mi accomodo sul divano in posizione ricettiva, attenta a visualizzare e a partecipare ad ogni dettaglio del bollettino medico che sto per ascoltare. E’ il primo giorno, fitto di minute descrizioni di quantità e qualità di flusso fratto tempo, crampi, semiparalisi, esperienze pre-morte. Ci si mette pure Internet a sbriciolare le poche certezze apprese in tanti anni di fertilità: a dispetto di tutti questi indizi contrari, non si può più nemmeno escludere una gravidanza. Non faccio altro che ascoltare, e interiormente confrontarmi con tutto questo dolore che non ho mai vissuto. Il dubbio che non ci si possa considerare abbastanza donna se non si soffre si trascina da quando avevo tredici anni, l’ultima della classe ad avere le mestruazioni. Fino ad allora, mentre le mie compagne già si schieravano fra sostenitrici dell’Aulin o del Moment, io combattevo contro un meno edificante mal di pancia. Chissà se era una smorfia di risentimento quella che scorgevo sui volti delle mie compagne, per la mia non appartenenza alla cerchia delle ragazze sviluppate. Io volevo solo veder crescere il mio seno, farmi comprare l’intimo da donna, e imparare a baciare. Tutti quei pallori, quei maglioncini strategici per coprire eventuali macchie, e quelle telefonate a casa per farsi venire a prendere, mi sembravano già allora un’idea di futuro a cui volevo sottrarmi. La mamma cercava invece di interpretare dei segni che non esistevano. Non c’era nessun segreto, il mio mal di pancia era solo colite. Deludente, inadeguata, guardata con sospetto in casa e a scuola, mi sentivo di tradire un misterioso patto femminile a cui però non avevo mai preso parte. Me ne aveva parlato sbrigativamente anni prima, la mamma, di questo ciclo, di una cosa che viene da grandi alle donne, circa una volta al mese e poi ci si abitua, niente di sconvolgente. Glielo avevo chiesto io, dopo aver trovato quegli strani pannolini dentro un armadietto, eppure mi era sembrato improbabile che il corpo avesse la cognizione del tempo, ma non avevo sorelle o cugine più grandi a cui chiedere di più. Da quel giorno, fino al mio ingresso alle medie, non ci avrei più pensato. Così, quando le mie nuove compagne mi ricordarono l’esistenza di queste mestruazioni, era troppo tardi, tutte già sembravano sapere tutto, ero rimasta indietro, e mia madre, pudica d’altri tempi, aveva già delegato alle riviste femminili sparse per casa la mia erudizione in materia. Oggi direi di aver vissuto quegli anni come una ricercatrice solitaria: senza tracce da seguire, né ingiunzioni limitanti, libera mio malgrado di apprendere ciò che volevo. Non vedevo l’ora che mia madre mollasse la rivista per andare di corsa a leggere le “Lettere alla ginecologa”. Anche se il mio primo ciclo era ancora lontano, intanto mi avvantaggiavo sull’importanza dei preliminari e sul fatto che un giorno avrei incontrato ragazzi con l’ansia da prestazione. Non ero esclusa dalle conversazioni con le amiche, ma sentivo di non poter intervenire: io le cose le avevo solo lette, non sperimentate sul mio corpo. E’ così che il consueto bollettino di Elisa, da noioso, diventa confortante per entrambe. Con qualche decennio di ritardo, ricostruiamo la confidenza che ci è mancata quando eravamo troppo bambine, lasciate a noi stesse. “Ma tu che prendi quando hai dolori?” indugio nella risposta. Non è merito mio se solo durante le prime ore del primo giorno ho qualche fastidio. Non è neanche colpa mia se non assomiglio a quelle piccole e tenere donne straziate dai crampi. Prendo una camomilla, un tè verde, mi permetto persino un cioccolato caldo, anche se le riviste dei primi anni ’90 lo sconsigliavano. Quante fesserie avrò letto in quegli anni. E invece per me quello scarno segreto rivelato da mia madre si conferma magicamente. Il mio corpo conosce il calendario, e funziona meglio di quanto io creda. Può concedersi piccoli scherzi, in occasione della variazione di un appello all’università, o poco prima di un viaggio, o di un incontro importante che rimando. Di solito si trattiene uno o due giorni, per lasciarmi il tempo di finire ciò che più mi impegna in quel momento. E’ come un’amica paziente che mi ricorda quando sono troppo stressata.
Nei riguardi delle mie mestruazioni ammetto di essere protettiva. Il mio primo giorno in assoluto, lo tenni per me per ventiquattr’ore. Avevo letto, avevo ascoltato, desideravo sperimentare cosa volesse dire essere donna, libera, senza l’aiuto di nessuno. Mia madre rimase male di questa mia scelta. Avrei dovuto dirglielo dopo una, due ore? La mia non era una vendetta per un qualche presunto torto subìto, ma una volontà di differenziarsi. Anni dopo mi chiese scusa per non essere stata abbastanza presente allora. Per quanto le scuse mi paressero indotte sempre da certe letture sulle riviste, a me venne solo un senso di tenerezza, verso di me, verso di lei, e verso tutte le donne che in maniera diversa affrontano i loro cicli mestruali. E se fosse stata troppo presente, non mi sarei sentita invasa, timida com’ero? A suo modo, c’era stata. Non mi sono ancora stancata di avere le mestruazioni. Nei giorni asciutti me ne dimentico. Anche se qualche volta vorrei una sorpresa, senza troppa convinzione, chissà forse perché ho paura anche di questo dolore. L’arrivo del ciclo è comunque rassicurante. Lo ripeto sempre anche ad Elisa. No, proprio difficile che sia una gravidanza con tutti questi sintomi: ma vuol dire che funzioni, che sei viva. Anni ed anni di riviste femminili, ecco come lo so.