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di Alessandra Moneti

Un taglio al basso ventre, neanche tanto coperto dai peli pubici. E’ il segno dell’addio alle mestruazioni, il confine tra prima e dopo la menopausa. Un traguardo raggiunto con un certo sollievo, liberatorio, anche se fossilizza tanti rimpianti. E’ un viaggio di sola andata, è un tunnel a senso unico. Diventa dunque l’inequivocabile sigillo a maternità mancate. Non necessariamente volute, ma tanto prima o poi qualcuno ti presenta il conto e riesce a farti sentire per qualche istante un ramo secco. Ciononostante, ora che l’appuntamento mensile col flusso di sangue è interrotto, vivo serena il mio giardino d’inverno. Solo apparentemente in letargo, perché capace ancora di svelare tartufi e gustose noci.
A volte me ne dimentico persino, e trovo sempre più fastidiosa l’ossessione delle adolescenti nel dichiararsi mestruate, nello sfoggiare mini pants in spiaggia. Assillate dal mancato controllo del corpo, turbate dal sangue nostro. Non ho mai amato le donne uterocentriche, quelle che prima durante e dopo parlano a tavola o al bar solo di mestruazioni. Per le mie non ho mai preso sciroppi, gocce o una pasticca. Affrontavo la cosa con assorbenti, pantaloni comodi, e poi la vita di tutti i giorni.
A un certo punto però il ciclo è diventato un problema, che mi ha portato due volte nella vita in ospedale. La prima mutilazione è stata all’ovaio, uno dei due, per una cisti grande quanto un’arancia. Le possibilità di rimanere incinta, per quel che ne so, erano dimezzate. Ma le occasioni di incontrare un uomo con cui valesse la pena far famiglia hanno percentuali ben più basse. A me non è capitato. E intanto quelle mestruazioni si sono fatte sempre più frequenti, dense, sporche. Insieme al sangue mi sembrava di perdere brandelli di carne. La routine era diventata un problema: mi sentivo sempre a disagio. E per fare un bagno al mare -la mia passione- erano più i giorni da evitare che quelli ammessi. A letto poi ho acquisito riluttanza. Arriva una fase di privazione di forze, di astenìa.
Una brava ginecologa, solo guardandomi negli occhi, mi ha diagnosticato l’anemia. Questo fiume emorragico stava portando la mia emoglobina a valori bassissimi. Occorreva raggiungere almeno quota undici per poter fare l’intervento di asportazione dell’utero. E ci sono voluti mesi e mesi di pesanti farmaci al ferro, pasticche che ti rimangono sullo stomaco e rendono le feci nere nere. Pillole, prelievi del sangue, fiacca, ma finalmente si scavalla il dieci di emoglobina e si arriva in meta. Maxi scorte di sangue donato, e un chirurgo buddista che ha fatto meditazione prima di togliermi dalla pancia una massa grande quanto un melone. Non entrava in nessuna vaschetta in sala operatoria, mi è stato riferito. Tanti punti dentro e fuori. Poi la forza ritrovata. Il calendario tutto da riempire perché finalmente ogni giorno è buono.
Della cicatrice mi ricordo raramente: dall’estetista per la depilazione o quando provo un costume nuovo. Ora tiro dritto al supermercato davanti a quegli scaffali di baggianate con le ali, senza ali, per quei giorni. In valigia, ad ogni partenza, c’è meno ingombro. Ora ogni giorno è quello giusto.