
di Liliana Paganini
Cara Mamma, è la prima volta che ti scrivo. Neanche quando ero all’asilo dalle suore ti ho mai scritto. Sai, quelle letterine che fanno ormai parte delle attività scolastiche, tipo: “Cara Mamma, ti voglio tanto bene!” o “Auguri alla Mamma più bella del mondo!”. Quando ero piccola non si usavano e poi, crescendo, non c’è mai stato bisogno di scriversi. No, non è esatto dire così. Non ne ho mai sentito io il bisogno. Ormai il nostro rapporto era fissato, raggelato, in una convenzione che non prevedeva baci che alle partenze o agli arrivi. Scusami se non troverò parole adeguate. Non sono abituata a parlarti così intimamente. Ad aprire il mio cuore. Fra noi non c’è mai stata quella confidenza che normalmente sancisce il rapporto madre – figlia. Ti ho cercata in tutti i corpi che ho incontrato. In tutti i baci dati e inseguiti. Inutilmente. Rintracciando soltanto quel sentimento di solitudine e di delusione che ha spesso abitato la mia anima. Siamo sempre state solo figlie. Eri troppo giovane tu quando mi hai messa al mondo. Un errore di percorso io. Arrivata a ribaltare i tuoi sogni, tutte le tue speranze e aspettative. Quante volte mi sono chiesta come sarebbe stata la tua vita se non fossi sopraggiunta come Attila a rubarti e depredarti l’avvenire. Mi sono sempre sentita in colpa. Anche se io non ho alcuna colpa. Credo. Non so se sia vero che noi anime, decidiamo di rincarnarci in determinate circostanze, scegliendo genitori, famiglia e destino. Se è così, una certa quantità di colpa l’avrei, anche se non so ancora qual è stato o sarà il fine ultimo delle nostre vite intrecciate. A vent’anni non si ha coscienza degli errori che si commettono e soprattutto non si può immaginare dove ti condurranno. Vent’anni tu, ventidue papà. Due ragazzini avventati che giocano con la vita e l’amore. Eri una ribelle tu e un ribelle papà. Anch’io non potevo essere da meno. Figlia di due giovani indocili e passionali che avevano rotto i tabù borghesi di due famiglie così diverse, ma ugualmente pronte a condannare chi infrangeva le regole. Da sempre ho avvertito un disagio che mi riguardava, qualcosa di non detto, ma da me percepito in famiglia, con i nonni o gli zii. Effettivamente da grande, constatavo che la data delle tue nozze rivelata dalla tua fede nuziale appoggiata sul comò, distava di soli sei mesi dalla mia nascita. Il mio arrivo aveva determinato un destino, che non credo avresti scelto se ne avessi avuto la possibilità. Tu, così piena di poesia e così musicale… Percepivo di essere nata nel mezzo di una tempesta. Come se la mia presenza avesse causato tanto dolore. Intuivo sofferenza. La zia prediletta, sposata da poco che viveva con noi, nella stessa casa, che chiamavo Mami, per l’affetto che mi dimostrava, mentre io venivo al mondo, abortiva la sua ultima speranza di figlio. “Ho fatto la frittata!” mi disse, quando bambina le chiesi come mai non avesse avuto figli. Dopo appena undici mesi, mentre eri in attesa di un altro pargolo, lei e mio zio ti chiesero se potevano adottarmi, avendo perso ogni possibilità di diventare genitori. Chissà se con loro sarei stata felice! Certo molto amata, abbracciata e baciata. Ma non libera. No, mi avrebbero stretta nelle maglie di un’educazione borghese. Il liceo artistico dalle Orsoline, un paradosso per me che sceglievo la scuola più anticonformista del momento! Volentieri mi regalavano quell’istituto privato costosissimo che poteva difendermi dai pericoli messi in campo con l’arte. Per fortuna vi rifiutaste con dignità. Con voi non mi sono mai sentita prigioniera, anzi semmai avrei cercato un po’ di protezione. Ma nessuna di noi l’ha avuta: né io, né mia sorella Stefania, né mia sorella Annabella. Ognuna di noi ha preso la strada che si è trovata davanti, scegliendo d’imboccarla secondo le proprie aspirazioni. E così una ha preso la strada dell’Arte, un’altra quella del Diritto e l’ultima si è persa nelle droghe. Tutte con le stesse possibilità, tutte mandate da sole al pascolo. Poi con l’età, tu e papà vi siete ammorbiditi, avete trovato nel rapporto coi nipoti quella dolcezza e pazienza che era mancata coi figli. Finalmente il sentimento si è manifestato, ha rotto gli argini esondando come un fiume in piena. Per noi ormai era troppo tardi. Per me è stato addirittura imbarazzante conoscere quella parte di madre, finalmente, che avevi nascosto così bene dentro di te. Un tenero mollusco dentro una conchiglia, come una vongola, una tellina. E ora che sei arrivata a un’ età ragguardevole, che stai trascorrendo i tuoi ultimi anni nella solitudine della tua casa, svuotata dalla famiglia ingombrante che hai deciso di mettere al mondo, ora che parli con fatica e con poca sicurezza con voce flebile e pensiero dubitante, dimenticando e inciampando nei ricordi, ora sei diventata, con ogni diritto, tu mia figlia. Ora ti lasci guidare come una bambina, come se non avessi mai vissuto la tua vita e imparassi da me, da noi figli, come ci si comporta, come si cammina, come si mangia. Tutto questo fa parte del gioco della vita, in cui ci si alterna nei ruoli per sopravvivere, per aiutarsi. Eppure Mamma, infine, ho deciso di scriverti per rivendicare la mia parte di figlia. Una parte che non ho potuto recitare con te. Prima perché tu eri troppo giovane, poi perché io non ero abituata a ricevere il tuo affetto e ora perché questa parte l’hai presa tu, ti spetta di diritto, all’età in cui sei arrivata. Vorrei tanto, che tu almeno una volta mi dicessi: “ Bambina mia, ti voglio bene.” Decidi tu quando e dove, ma fammi sentire almeno una volta Figlia.
Grazie Liliana. Un racconto molto bello che arriva dritto al cuore
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Un bel racconto, tenero e nello stesso tempo duro
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