
di Alice Valerio
Come figlia mi sono sentita sempre un po’ imbranata. Magra, di media statura, capelli a caschetto, esile, eppure riuscivo sempre a sbattere ovunque: agli spigoli dei tavoli, ai piedi del letto, agli stipiti delle porte. Il fatto è che sognavo ad occhi aperti, poiché tutto quello che mi circondava mi andava stretto. Stretta era la mia famiglia che proveniva dal sud, con la mentalità del paese sempre in testa, stretti mi andavano i miei fratelli, che essendo due riuscivano almeno a farsi compagnia, come stretto mi stava il ruolo che mi volevano affibbiare: la classica femmina del sud, che avrebbe dovuto occuparsi della casa, dei fratelli e della mamma nei momenti del bisogno.
A me invece piaceva immaginarmi ballerina di danza classica, oppure pianista ma soprattutto pittrice. Quando sbattevo ai mobili sentivo un forte dolore, e mi risvegliavo dal sogno: la cruda realtà mi ricordava ciò che non ero. L’unico posto dove potevo vedere persone differenti era la scuola, quelle compagne dal grembiule e dal fiocco inamidato e profumato, con l’orologio al polso, i capelli sempre in ordine: mentre loro arrivavano con i codini, il mio caschetto somigliava sempre di più a quello della Carrà. Le madri delle mie amiche erano sempre presenti, soprattutto alle recite scolastiche, dove io mi sentivo impacciata e timida, relegata spesso a un ruolo minore: tanto nessuno della mia famiglia sarebbe venuto a vedermi, così non avrei dato altro materiale ai miei fratelli per potermi prendere in giro.
Io a scuola cercavo di imparare l’italiano, mentre a casa si parlava prevalentemente il dialetto, mi sembrava di vivere in un ambiente surreale, soprattutto non mi sentivo di far parte di un luogo determinato. Sud o centro Italia, che vivessimo in un paese della Puglia o a Roma, in fondo non aveva importanza, perché i miei la loro mentalità se l’erano sposata e se la sarebbero portata ovunque fossimo andati. Si sarebbero portati sempre dietro il paese. Naturalmente non andammo a vivere in centro, ma in periferia, nella borgata Montesecco, chiamata così perché in passato non vi arrivava l’acqua. Una borgata occupata in prevalenza da gente che dal paese si era trasferita “in città” ed erano riusciti a trovare la loro isola felice, a familiarizzare con altre persone, a formare una piccola comunità dove condividere idee simili, mantenere le loro usanze, andare in chiesa, non solo perché luogo di preghiera, ma anche luogo di ritrovo e di scambio. La cosa che più mi lasciava sgomenta era la loro compiacenza rispetto agli obiettivi raggiunti in città: il lavoro trovato, i figli che crescevano, e come un mantra si ripetevano cosa fosse giusto fare, per vivere bene da cittadini. Tutte queste famiglie avevano un comune denominatore: le loro figlie maggiori, mal si adattavano a quell’ambiente e a quella mentalità. Le giovani donne che non si sentivano paesane, dovevano comunque avere un comportamento impeccabile.
Mi ripetevo quasi ogni giorno, quanto erano stati fortunati i miei fratelli a nascere maschi, per giunta due: a ogni loro cazzata, mia madre sorrideva, li guardava con orgoglio e ogni tanto gli diceva pure “ah se alla vostra nascita il nonno fosse stato in vita, sarebbe morto solo per la felicità, lui che desiderava tanto un figlio maschio, se vi avesse potuto vedere!”.
Venni a sapere della corsa di atletica leggera per puro caso. La corsa era organizzata dal comitato dei festeggiamenti di Montesecco: faceva parte della scaletta degli eventi, e appena seppi che entrambi i miei fratelli vi avrebbero partecipato, mi iscrissi, almeno quel giorno saremmo stati alla pari. Mi resi conto che avevo un solo obiettivo: quello di arrivare prima. Prima dei maschi, prima di quelle ragazze a cui sembrava non interessare neppure arrivare. Iniziai a prepararmi per l’occasione, indossando il mio abbigliamento preferito: la tuta celeste e attillata dell’Adidas, con le righine bianche laterali, e le tanto conquistate scarpe bianche e rosse che per un breve periodo furono di mio fratello. Ero pronta. Ci fu il fischio d’inizio, e a un certo punto, ricordo che mi misi a correre, correvo con tutto il fiato che avevo in corpo, superando ragazze che sembrava stessero facendo una passeggiata campestre, superai le figlie delle famiglie benestanti che correvano allineate in quattro e poi le amiche delle amiche, le superai tutte: mi erano rimasti solo i maschi da superare. Da lontano finalmente iniziai a intravedere qualche figura maschile, erano i compagni dei miei fratelli. Mentre correvo, non capivo da dove provenisse quella forza, sapevo però che mancava poco alla fine e già da lontano intravedevo le sole figure maschili rimaste: erano duri da battere! Quindi girai l’angolo e trovai l’arrivo, solo allora mi resi conto che tre di loro avevano tagliato il traguardo. No, non ce l’avevo fatta ad arrivare prima. Sconsolata me ne tornai a casa, rimasi per un po’ a riflettere, non potevo raccontare ai miei della mia avventura, non me la sentii, era qualcosa di solo mio. Solo verso sera s’iniziò a vociferare che ero arrivata prima, ero la prima della categoria femminile! Non riuscivo a credere alle mie orecchie, neanche quando a comunicarmelo fu uno dei miei fratelli, mi chiusi in un silenzio impenetrabile, dove mi ripetevo che “comunque non ero riuscita ad arrivare prima di tutti!”. Mi convinsi che qualcosa di buono lo avevo fatto, solo quando dal palco mi chiamò il Mister per premiarmi, il quale senza aspettarmelo mi chiese: “tu dove ti alleni?” io impreparata risposi solo quello che mi venne in mente al momento “per le vie di Montesecco”, lui nel congedarmi mi fece capire che avrebbe voluto che avessi fatto parte per sempre della sua squadra. In realtà gli avevo raccontato una bugia, non mi ero allenata prima di allora, ciò che mi fece vincere quel giorno fu solo la rabbia di arrivare prima di tutti.
Uno dei mie fratelli mi disse brava. I miei genitori accennarono persino un sorriso per la coppa ricevuta. Qualche giorno dopo però, mi accorsi che la mia coppa non era più in camera mia, ma sul comodino di mio fratello, allora mi fu chiaro che la mia posizione all’interno della famiglia non sarebbe mai cambiata.
Stupendo racconto .Queste cose servono per essere genitori migliori…dar fiducia ai nostri figli al di la del sesso e degli anni!
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Mentre leggevo non riuscivo a staccare gli occhi dallo scritto… Mi sono immedesimata molto immaginando come se fossero reale tutti gli attimi descritti… Davvero molto fluido come scritto… Mi sono emozionata soprattutto perché quando si racconta del passato ci si proietta anche ai giorni di oggi… E la realtà non è molto diversa da allora…. Quindi penso che dovremmo sempre portare le nostre esperienze seppur negative Del nostro passato e dirottare in momenti positivi sui nostri figli per essere migliori donne e mamme…. Davvero uno scritto che fa riflettere….
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C è molta realtà nel tuo racconto e lo fai con tanto talento! Brava!
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L’ ho riletto per la seconda volta. Scorre fluido, veloce come la ragazza che sorpassa tutte e poi quasi tutti: sarebbe stato un bel colpo sorpassare anche loro, sicuramente se si fosse allenata. E, poi, quest’ ilarità che domina il finale: sì, la coppa è stata messa sul comodino del fratello, ma la vittoria appartiene alla sorella.
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