di Fabrizia Fedele

Non ho percorso la via principale.
Sono scesa all’altezza del Ponte di Ferro per camminare lungo la sponda del Tevere. Ho messo le scarpe da corsa, anche se io non corro, io cammino. A passo veloce. Cammino sulla strada che è anche pista ciclabile. L’aria è fresca e sa di erba, sembra di stare in campagna. Sono in mezzo alla natura. Le buste di plastica e i detriti impigliati tra i rami e i cespugli non interferiscono. La città è lontana, anche se, mentre cammino e guardo il fiume, mi appare: vedo i palazzi di Testaccio avvicinarsi, mentre i gabbiani sorvolano la strada e l’acqua, e i cormorani si asciugano le ali al sole. Il sole mi riscalda. Non vorrei più risalire al livello stradale. Mio padre mi sta aspettando a casa. Impaziente e nervoso. Come solo lui sa essere. Istintivamente affretto il passo, accelerando anche la respirazione. Quando sarò da lui dovrò sforzarmi di stare tranquilla, mi dico. Dovrò evitare di alzare la voce e parlare lentamente. Non vorrei fare i soliti errori. Di che umore sarà oggi? Ce la farò a sorridergli? Improvvisamente il verso di un uccello mi distrae, ma è un rumore diverso dai soliti: infatti è il verso dei pappagalli che volano da un albero all’altro, dispettosi e chiassosi. Ogni volta che li vedo sorrido. Un pezzo di Tropici a Roma. Mi piacerebbe avere un pappagallo a casa: non si può essere tristi guardando un pappagallo. Almeno non troppo. Un ciclista sfreccia alla mia sinistra. Gli uomini con le ruote mi sembrano degli imbecilli, ciclisti inclusi. Mi dirigo verso ponte Sublicio. Per un breve tratto c’è una ringhiera, al di là della ringhiera ci sono dei cartoni legati con lo spago e dentro ai cartoni sono riposti i vestiti e le coperte di qualcuno. Guardaroba di cartone per gente di strada. Proprio sotto al ponte una donna urla al cellulare tutta la sua rabbia. Deve essere scesa per affrontare quella telefonata nell’atmosfera ovattata dello spazio intorno al fiume. Per qualche attimo si sente solo la sua voce. All’altro capo del telefono c’è qualcuno che non la capisce e neanche vorrebbe ascoltarla. Ma lei caparbiamente insiste. Urla, disperata. Vorrei dirle di attaccare e farsi una passeggiata anche lei. Che non ha bisogno di quella telefonata, tantomeno di quel qualcuno. Di guardarsi intorno, di guardare i pappagalli. Ma non lo faccio e vado avanti. Le sue urla diventano man a mano sempre più fievoli. All’altezza di Porta Portese, dove scendono due grandi rampe di scale c’è uno slargo, quasi una piazzetta, dove sosta un’umanità varia e disuguale che non si dà appuntamento, eppure si ritrova lì ogni giorno. C’è il vecchio che fa stretching, ormeggiato ai resti di una lastra di pietra, dove appoggia il cellulare, le chiavi e qualche altro oggetto che non riesco a vedere. C’è un giovane straccione che sonnecchia, o finge di farlo, su una panchina sgangherata. C’è una donna ferma, in piedi, ma ancora in sella alla sua bicicletta, che rivolge il viso al sole, con gli occhi chiusi, intenta a carpire non solo il tepore, ma anche l’energia della luce. E poi ci sono io che non mi fermo, sono solo di passaggio. Li guardo, intimamente li saluto e proseguo, devo arrivare all’Isola Tiberina. Anzi poco prima, appena oltre Ponte Palatino. E così faccio. Appena passata sotto il ponte sento un brivido di freddo, qui sotto il sole non arriva. Poi un momento di trepidazione, costeggio la banchina, là dove i ciottoli vanno a bagnarsi nel Tevere e mi sporgo per vedere meglio. Ed eccolo. Un airone bianco compare in tutta la sua bellezza misteriosa, le lunghe zampe a contatto con l’acqua. Era proprio con lui che dovevo incontrarmi. Sono diversi giorni che lo vedo, sempre in questo stesso punto. Ogni giorno, appena prima di arrivare sono presa dal panico. Temo che non ci sarà. Poi lo vedo e l’ansia viene ingoiata dalla gioia. Proprio come adesso. Ogni giorno torno in questo punto per verificarne la presenza e constatare che in questa città ancora esistono i miracoli. Miracoli piccoli, eppure potenti.
Ci guardiamo: io giro la testa e lo sguardo verso di lui, lui apparentemente scruta davanti a sè, ma ruota impercettibilmente l’occhio verso di me e mi mette a fuoco. Esita qualche attimo e poi, le grandi ali spiegate, spicca il volo verso la prua dell’isola. Solo pochi metri ed è dall’altra parte. Continuo a contemplarlo per qualche secondo. Poi in silenzio prendo commiato, sperando in un prossimo incontro.
Risalgo sulla superficie stradale. Dove una folla vorticante si divide tra le strade e i marciapiedi. Vado da mio padre. Mi aspetta sul pianerottolo, di fronte all’ascensore. Cucù, mi dice e sorride. Sembra molto contento di vedermi. Entriamo. Una coltre di fumo di sigaretta mi assale. Malgrado le mie raccomandazioni e a dispetto delle prescrizioni mediche, molte sigarette sono state consumate anche oggi. Come ogni giorno. Diciamo le stesse cose di sempre: che dovresti smettere, che non è facile, che fanno male, che però ne fumo meno, che dovresti smettere. Il mantra della premura filiale e dell’ostinazione paterna. Mia madre sta preparando il caffè. Guardo mio padre, sempre più magro: gli zigomi sporgenti, gli occhi arrossati, lo sguardo annebbiato. Come stai, mi chiede lui. Prima prendiamo il caffè e poi il resto, aggiunge. Mi chiede di nuovo come sto e poi mi dice che tanto non serve a niente andare dal dottore. Cerco di rassicurarlo, ma non sono convincente. Così inizia un discorso sulla sua attuale condizione di salute. In realtà un monologo, composto da brandelli di frasi disconnesse e parafrasi involute. La lingua di una malattia che non si può nominare. E certi giorni neppure pensare. Mia madre arriva con il libretto degli assegni. E lo porge a mio padre. Occorre concentrazione. Mio padre si concentra e, dopo qualche esitazione, firma un assegno con la sua penna stilografica. A compilare il resto penserò io più tardi. E’ troppo complicato. Dunque prendo il mio assegno, la mia mensilità, come ogni mese da un po’ di tempo a questa parte. Adesso possiamo pensare ad altro. A raccogliere i referti medici e le cartelle cliniche precedenti. Che non si trovano, perché mio padre non ricorda dove le ha messe. E mia madre non lo sa. Insisto a cercarle. E lui allora impreca contro esseri invisibili e malvagi che non fanno che nascondere e spostare fogli e documenti. Fantasmi onnipresenti che boicottano ogni suo movimento. Io e mia madre ci avviciniamo nel suo studio. E gli improperi si abbattono anche su di noi, che non siamo capaci a fare niente e che gli rompiamo solo i coglioni. Io faccio un respiro profondo, mi avvicino e gli cingo la schiena con il braccio. Gli dico di stare calmo, che adesso troviamo tutto, mentre sento le sue spalle ossute. Oggi un po’ più ossute di ieri. Infatti le spalle della giacca sono larghe, sembra che abbia indosso la giacca di un altro. E in un certo senso è la giacca di un altro. Un altro uomo, deciso e volitivo, che portava questa giacca qualche anno fa, sostituito dall’uomo esile e confuso che la porta adesso e che mi dice che non serve a niente andare dal medico, mentre si accende l’ennesima sigaretta. Poi, mentre sto cercando un modo giusto per persuaderlo ad andare alla visita, saltano fuori le cartelle cliniche e i referti delle analisi. Si sono materializzati improvvisamente. Li raccogliamo sollevati e ci predisponiamo a uscire. Viene anche mia madre. E mentre mio padre si infila il cappotto imprecando, io chiamo il taxi per andare dal neurologo.