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di Ilaria Borrelli

Ogni tanto mi concedo una passeggiata speciale, da sola, nel cuore di Roma.
Mi riprometto sempre di variare il percorso, di renderlo un po’ più casuale, ma niente da fare, finisco sempre lì: dapprima lambisco il colonnato di San Pietro, come una normale turista, senza mai la voglia di varcarlo, specie se c’è troppo sole o troppa gente. Svolto a sinistra, repentinamente, come se mi fossi ricordata all’improvviso di un appuntamento, mi scontro con un’ondata di pellegrini e mi rifugio per le vie di Borgo. Fingo che sia la prima volta che ci metto piede. Pochi passi, i soliti nuovi bar di nuova gestione, e svolto in uno dei vicoli più bui. Nessuno deve sospettare. C’è solo il retro di un ristorante, anzi c’era. Anzi no, lì c’era casa di mio padre. E’ il civico giusto. Si vede qualcosa da una grata, mi sembra una finestra su un cortile scrostato ma non ho modo di sbirciare oltre senza destare sospetti. Eppure è passato troppo tempo. Forse non c’è proprio più nessuno che ricordi questa storia. La casa di famiglia è un semplice retrobottega pieno di fusti, pavimenti in pietra originali, ci vivevano in sei tanti anni fa, con il mobilio che avanzava dagli istituti ecclesiastici che sorgevano a via Aurelia.
Poi era arrivato il benessere, ma non per tutti, e quella casa non andava più bene. Troppo stretta, troppo vecchia, e troppo cara. Neanche tanto, dice sempre mio padre, l’unico ad essere orgoglioso di quella povertà, l’unico che avrebbe fatto un sacrificio per ricomprarla, tanto era stato felice durante la sua infanzia popolana e stracciona.
Le sorelle maggiori invece si vergognavano, perché la cucina andava ancora a carbone, motivo per cui non potevano presentare i fidanzati a casa. La nonna lo spediva a comprare 25 grammi di caffè: pochini per una famiglia numerosa, ma lui si sentiva utile nel sollevare la nonna dalla temibile onta, mentre zio Giovanni, il primogenito, dei bombardamenti ricordava solo che gli infilavano il cappottino buono perché i rifugi antiaereo erano pur sempre un’occasione sociale. Ogni tanto da mio padre mi faccio raccontare daccapo qualche aneddoto, e ne ridiamo insieme. Ascolto sempre avidamente le sue versioni chissà quanto limate dagli anni e dalle sofferenze che a una figlia non si possono dire. Chissà cosa significa non allinearsi ai valori della famiglia.
Le due sorelle hanno sposato due palazzinari, le umili origini non vanno menzionate ai miei cugini, e per loro papà non è che il fratello tanto onesto quanto fregnone. Zio Giovanni, simpatico epicureo, non ha ideali, si gode la vita più che può ma è rimasto sempre legato a mio padre. Si somigliano davvero, e non tanto per una questione somatica: oltre alle movenze, quello stesso accento pigro e inconfondibile, che solo in questi vicoli si può ancora sentire. E poi lo stesso modo antiquato di tenere in mano la sigaretta.
Mi allontano dalla vecchia casa con un senso di mite soddisfazione. Quanta libertà mi è stata regalata, quanta dignità nell’affrontare le situazioni quotidiane, figlia prescelta e custode del passato di famiglia. Questa volta però non glielo voglio dire che sono stata a Borgo. Papà non sta bene da qualche tempo, cammina a fatica, anche se ha ancora voglia di andare al lavoro. Per la prima volta ho il timore che queste passeggiate stiano diventando un po’ troppo archeologiche, sognanti. Non posso più essere la figlia che ascolta e fantastica. Anche Giovanni sta male, lo stesso identico tumore di papà, entrambi la stessa imbarazzante capacità di scherzarci sopra.
Rincaso, più smarrita di prima. Non riesco nemmeno a studiare, la sessione è stata un disastro. Tutto è filato liscio fino all’anno scorso, poi è arrivato il blocco. Papà l’ha capito, mi dice che sono stata brava fino ad ora e non fa niente. Ha capito pure che con Andrea mi sto infilando in un vicolo cieco. Sono da mesi in uno stato di trance. Vivo, ma non penso ad altro. E non so che vita ci potrà essere dopo, figlia senza padre.
Ho l’assurdo privilegio di poterti piangere un po’ al giorno, e di avere tutto il tempo di salutarti. C’è ancora tempo, forse mesi o più per raccontarsi altro, per combattere, per proteggerti.
Ecco, finalmente rincasa anche papà, fradicio, sorridente, forte. “Allegra quando mi vedi, eh! Sto meglio, non lo vedi?”. Lo invito a sedersi, prendo tempo. Gli devo dire una cosa più importante della passeggiata di stamattina.
Vorrei essere una passante ora, vorrei che non esistessero gli affetti, che fossimo tutti degli sconosciuti.
Zio Giovanni, fratello di sventura, ha avuto un’emorragia interna stamattina. E beh sì, alla fine è morto. E tocca a me dirtelo, papà. Uno scoppio di pianto subito represso nasconde una cascata di pensieri, che fino a quel momento avevamo aggirato, o rimandato. Il tempo non ci riguarda più realmente.
Ero riuscita a non piangere mai davanti a te. Avrei solo voluto non essere tua figlia in quel momento.