
di Anna Maria Brigida
Nei ricordi della mia famiglia, i più lontani, mi vedo sempre ed esclusivamente con mia madre. Il primo è nella camera da letto dei miei, dove, entrando, fui subito attratta dalla luce che vi filtrava dalle bianche ed alte tende. Lei era nella parte destra tutta presa dalle sue faccende. Le chiesi : ”mamma, cosa faccio?”, “leggi il libro!”, fu la sua repentina risposta. La incalzai : “ma lo so tutto a memoria!”. E lì, il suo silenzio pieno di un’altra luce che iniziava a forgiarmi dentro. Riguardo al libro, si riferiva all’unico libro che avevamo in prima elementare. Tra l’altro, quell’anno, per poter frequentare la prima, piansi per tre giorni. Il primo ottobre mia madre mi fece indossare il grembiulino bianco perché non avevo ricevuto la cartolina dal comune della mia città: sono, infatti, nata a novembre. Il mio pianto irrefrenabile costrinse i miei a correre ai ripari: mi provvidero allora di un lungo grembiule nero e di una cartella di cartone. Finalmente seduta nei banchi della grande aula desiderata, mi affrettai a mostrare alla suora il lavoro che avevo mandato avanti a casa: quattro paginette fitte di “mazzarelle”, aste e lei mi ripagò con un sorriso luminoso.
Ritornando a quella mia richiesta che non ebbe risposta, visto che mia madre non mi dava nessun compito da svolgere, me ne inventai uno io: l’avrei seguita in tutti i suoi vorticosi movimenti qualunque cosa facesse, fin dove mi fosse stato possibile, guardandola. E lei, tacitamente, me lo permise. E’ vero che ho due sorelle: Rachele, più grande di un anno e Clara, più piccola di due anni e quattro mesi, che diverrà in seguito la mia compagna di giochi, mentre la “grossa” si isolava ed era poco presente. Su quella casa, della mia prima noia, mi vedo cantare e fare il girotondo con loro due tenendoci per mano. Circa due anni dopo, mi vedo osservare la mamma, mentre si lavava il viso nel lavandino del bagno: si pulì il naso e mi vide che la guardavo. Mi riaffiora ancora quella sensazione di piacere che provai, di familiarità. Ero lì, implacabile, dietro, accanto: come lei mi rispose con il suo silenzio compiacente, così io la guardavo con lo stesso silenzio. Lei, dunque, accettò il mio gioco, lasciandomi libera di seguirla: non aveva altri libri da comprarmi e offrì a me i gesti della sua vita quotidiana. Ce la intendevamo così bene che, un giorno, la vidi arrivare nella nostra stanza -eravamo nella seconda casa- con il bicchiere blu del bagno rotto. Era un po’ agitata e mi confidò che l’avrebbe rimesso al suo posto, riunendo i cocci, come se nulla fosse. La seguii assistendo al povero restauro. Ora si trattava di aspettare il ritorno di papà. Il piano avrebbe funzionato? Avremmo evitato le urla del leone? Quando arrivò il delicatissimo momento vidi papà uscire dal bagno e affacciarsi sconsolato alla stanza dove sedevamo mamma ed io, con in mano il bicchiere in frantumi, rivolgersi a lei : “Lucia, non so come ho fatto!”. I nostri sguardi si scambiarono un’intesa piena di soddisfazione e di nascosta gioia, mentre papà fissava afflitto i cocci.
Bel racconto, mi piace soprattutto l’intesa tra la mamma e la figlia, una complicità che non sempre si riesce ad ottenere da un genitore.
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Un gradevolissima lettura
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