di Anna Sidonio

photo-nic-co-uk-nic-166679-unsplash
Photo by photo-nic.co.uk nic on Unsplash

Irma spinge la carrozzina e cammina veloce, lungo il viale alberato che porta all’entrata dell’ospedale. È una splendida giornata di primavera e lo spettacolo della natura che si risveglia dal torpore invernale la distrae a ogni passo, vorrebbe fermarsi un po’, sedersi su una panchina e sentire il profumo dei glicini in fiore, guardare le gemme sui rami e sentire il calore del sole. Potrebbe incantarsi per ore a osservare quell’esplosione di vita bisognosa di uscire, per farsi ammirare odorare e toccare. Ma Irma ha fretta, stavolta vuole arrivare in anticipo, prima dell’apertura dell’ambulatorio, e prima che arrivi il dottore. Si siederà davanti alla porta, prima di tutte, e quando lui arriverà, lo guarderà diritto negli occhi, entrerà per prima, oggi non ha intenzione di starsene seduta per ore a guardare le altre mamme che le passano davanti senza neanche chiederle il permesso. Ma è lui che le fa entrare, che le accoglie sorridente, forse perché i loro bambini piangono sempre e fanno capricci. La sua bimba invece non piange mai, non chiede mai niente.
Irma spinge la carrozzina su per la salita, ansimando. Fa fatica perché il suo corpo è diventato pesante, non ha più l’agilità di quando era giovane, ogni tanto si deve fermare per prendere fiato e asciugarsi il sudore, il sole di maggio comincia a picchiare e la bimba è troppo coperta, bisogna fare attenzione, forse è meglio fermarsi per bere qualcosa di fresco e riempire il biberon.
I ragazzi che lavorano al bar vicino all’ospedale la conoscono ormai, sono simpatici, anche se le fanno sempre un sacco di domande. Ma Irma preferisce il silenzio, perché di parole ne ha troppe, tutte ammassate una sull’altra dentro la testa, come vecchi libri di una grande biblioteca, accatastati, buttati alla rinfusa e pieni di polvere. Avrebbero bisogno di qualcuno che se ne prenda cura, che li metta in ordine e ne faccia un catalogo, per poter scegliere, all’occorrenza, a colpo sicuro.
Irma non riesce mai a trovarle, le parole. O almeno, quelle che trova, non sono mai giuste. Qualche volta vorrebbe buttarne fuori un po’, per fare pulizia dentro la testa, ma non si fida, ha paura di buttare quelle utili, la scelta è difficile, potrebbe peggiorare la situazione, cosa se ne farebbe poi di tante parole sbagliate? No no, meglio tenerle al caldo nella testa e aspettare tempi migliori. Deve entrare nel bar ora, perché la bimba è bollente, non può portarla dal dottore in queste condizioni, potrebbe pensare che lei non sia una brava mamma, forse è per questo che la fa aspettare così tanto ogni volta. Questo pensiero si insinua pian piano a martellarle la testa, allora si ferma, si pianta in mezzo al marciapiede davanti al bar. “Brava mamma… mamma cattiva… mamma invisibile…” Si guarda le scarpe, la gonna, la giacca, mette le mani in tasca per cercare il suo documento, guarda la foto e ne controlla la scadenza come per confermare la sua presenza nel mondo. Si guarda, esiste, nome cognome e data di nascita, lo mostrerà al dottore, perché non ci ha pensato prima, che stupida, ha pure il contratto d’affitto, e le ricette delle sue medicine, mostrerà anche quelle. I dottori vogliono sempre vedere prima le carte e poi ti guardano in faccia, tutte le mamme mostrano prima le carte e dopo lui le fa entrare.
“Irmaaaaaaa!!!!”
Si gira di scatto, mentre ancora sorride per la nuova intuizione, vede la carrozzina che corre giù lungo la strada che hanno appena percorso, un uomo la rincorre e riesce a prenderla al volo.
“Irma, ma che succede? Dove vai con questo caldo? Vieni a prenderti ‘sta carrozzina prima che investa dei poveri passanti innocenti!”.
Irma rimane paralizzata, le parole che ha nella testa le bloccano il corpo: “Brava mamma, premurosa e accogliente, madre cattiva, distratta egoista, madre sbagliata, madre affettuosa…”. Riconosce Gianni, l’infermiere dell’ambulatorio che le sorride. Ora le riporta su la carrozzina e la scuote con un braccio.
“Vieni dentro dai, sei tutta sudata, ti bevi qualcosa di fresco.”
“Non posso, il dottore ci aspetta.”
“Ma sì, ci andrai dal dottore, l’ambulatorio è ancora chiuso, vedi che entro anch’io, mi prendo un caffè, non c’è fretta!”.
Irma ha gli occhi impauriti e nella mente la carrozzina che corre da sola giù per la strada. Si siede al suo solito posto, le portano un tè e un po’ di latte per la bimba.
“Allora Irma, quando darai un bel nome a questa bambina?”.
Gianni fa un cenno ai ragazzi, di lasciarla perdere, ma quelli continuano.
“Eh sì, un bel nome ci vuole, mica potrai sempre chiamarla bimba!”.
Irma i nomi li odia, pensa che siano inutili, pensa che uno il nome dovrebbe sceglierselo da solo, che quello che ti danno è sempre stonato, non ti somiglia per niente, come il suo. Irma è un nome che stride, che taglia di netto, le ricorda la lama del coltello, è un nome secco, che non ammette diminutivi, vezzeggiativi e dolcezze. Irma è Irma. E basta. Come se lei fosse solo secca e tagliente. Ma lei ha sempre pensato di essere tante cose, forse troppe. Troppe parole, troppi pensieri, troppa carne, troppi capelli, troppo di tutto. Fin da quando era piccola tutto in lei straripava, non riusciva mai a mettere ordine, a eliminare, a comprimere, tutto in lei fuoriusciva, si sentiva come un panino imbottito, di quelli che nessuna bocca, per quanto grande, riesce a mordere senza che le salse schizzino fuori a macchiare i vestiti e i pezzi di carne cadano addosso insieme alle foglie di insalata sporche di maionese. Si era messa d’impegno per far stare tutto dentro, quello che usciva non piaceva a nessuno, quello che usciva veniva ricacciato dentro da critiche e insulti, doveva diventare un gran contenitore con la chiusura ermetica, doveva crescere in altezza e in larghezza. Era diventata grande e grassa. No, Irma non le piaceva. La bimba si sarebbe trovata il nome da sola, quello più adatto, lei non poteva sapere come sarebbe diventata.
Si asciuga il sudore, si rimette la giacca, sistema bene la bimba, sorride, ringrazia e si avvia verso l’ambulatorio. Controlla l’orario per l’ennesima volta. È la prima e va a prendere posto di fronte alla porta del dottore, vicino alla grande finestra che si affaccia sul viale, ma lui non è ancora arrivato. È arrivato soltanto Gianni, l’infermiere.
“Irma, manca ancora mezz’ora, e poi lo sai che ci sono tutte le altre mamme prima di te, che vuoi fare qui tutto ‘sto tempo?”
“Aspetto. E guardo fuori. C’è un sacco di roba da vedere”.
Qualche mamma comincia a entrare, ben presto la stanza si riempie. Passeggini, bambini, sorrisi di donne, ragazze, facce distese, preoccupate, serene, distrutte. Irma le guarda e ascolta le parole, cercando di imparare quelle giuste, di pappe, di nanne, di chili di troppo, di febbri, morbilli, poppate. Qualcuna è bella e radiosa, qualcun’ altra non parla e si accarezza il pancione sbuffando per il caldo, una vorrebbe guardare fuori dalla grande finestra, come lei, e parlare di fiori e di rondini, un’altra guarda l’orologio, sgrida il bambino, lo allontana da lei, gli soffia il naso.
Irma sente odore di latte, di sudore e rigurgiti e per un momento vorrebbe scappare, e correre con la sua bimba sull’erba. Il pancione l’ha avuto anche lei, se lo ricorda bene. All’inizio, era stata contenta di avere un bambino, si toccava la pancia, si guardava allo specchio e cantava, lei era sola, ma grande, e forte, avrebbe fatto qualcosa di buono e di bello, avrebbe nutrito, cullato, sollevato, pulito, avrebbe mostrato alla sua famiglia e al mondo di cosa era capace. Al quarto mese il pancione era esploso di colpo. Enorme, ingombrante, sporgente come una mongolfiera che la riempiva tutta, e lei non riusciva a guardarlo e nemmeno a toccarlo. La pelle si sarebbe spaccata, non ne aveva abbastanza per contenere tutta la roba che continuava a crescerle dentro, se ne stava distesa, spaventata e passiva. Aveva passato la vita a trattenere, a non far vedere, a rimettere dentro, a nascondere, e ora tutto sarebbe uscito, si sarebbe mostrato allo sguardo del mondo, un ammasso enorme di carne, vergogne, pensieri sbagliati, parole non dette, sentimenti stupidi, inutili e brutti. Come avrebbe fatto? Lei non lo sapeva. Non era più un figlio quello che scalciava dentro di lei, era un groviglio di visceri, carne putrida, sangue infetto e lei non voleva nutrirlo più. Voleva soltanto dormire.
In ospedale l’avevano alimentata a forza. Lavata, monitorata, pesata. Irma guardava l’inutile affanno intorno al suo corpo. La chiusura era ermetica, a perfetta tenuta, non consentiva il minimo passaggio di fluidi, avrebbe dovuto dirlo ai dottori, ma nemmeno le parole potevano uscire, tantomeno quelle giuste. Aveva passato i restanti mesi sul letto, attaccata alle flebo, come un’ enorme balena spiaggiata che qualcuno veniva a vedere, come si guarda un fenomeno strano, ma nessuno si prendeva la briga di ributtare nell’oceano.
Poi aveva dormito, di un sonno profondo, pesante, si era svegliata con un forte dolore alla pancia e una bambina sul petto. Si era messa a gridare con tutto il fiato che aveva in gola, a urlare parole che non aveva mai detto, aveva pianto, insultato, sputato, aveva gettato quel corpo lontano da sé, il più lontano possibile, con tutta la forza che aveva.
L’ambulatorio è quasi vuoto, Irma è seduta e con la mano dondola la sua carrozzina.
“Irma, dobbiamo andare a casa. L’ambulatorio sta per chiudere. Andiamo a fare la cena.”
Le due donne si siedono vicino a lei, sorridendo la invitano ad alzarsi e a uscire.
“Ma… la visita?”
“La prossima volta Irma… ci torniamo insieme.”
Un bambino, che le stava seduto accanto, le segue con lo sguardo e poi torna a sedersi vicino alla madre.
“Mamma, quella signora aveva una bambola dentro la carrozzina.”
“Lo so.”
“E perché? ”
“Perché qualche volta le mamme hanno un po’ di paura dei bambini veri.”
“Di cosa paura? I bambini sono piccoli!”
“È vero. E hanno bisogno di tante cure e attenzioni. Qualche volta una mamma crede di non essere brava, di non saperlo fare. Magari lo vorrebbe tanto, ma proprio non ce la fa.
“Anche tu hai paura?”
“Un poco ne ho avuta. Eri così piccolo che avevo paura di romperti! Ma poi è passata. C’erano tante persone che mi hanno aiutato.”
“Ma non si possono portare le bambole dal dottore però.”
“Hai ragione. Sai cosa ti dico? Che quella signora lo sa, ma fa finta di niente, e magari così le sembra di avere un bambino vero, e per un po’ si sente contenta, come le altre mamme. Ora entriamo, che tocca a noi finalmente. La prossima volta che vedremo la signora con la bambola, la saluteremo e proveremo a parlarci un po’. Ok?”
“Ok.” Potrò chiederle come si chiama la bambola?”
“Sì. Ma se lei non te lo dirà, non dovrai insistere, magari le potrai raccontare qualcosa di bello o mostrarle uno dei tuoi giochi.”
Irma ripercorre il viale in discesa, a passi lenti, le mani strette sul manico della carrozzina. Le due donne le stanno vicino e cercano di accelerare il passo, hanno fretta, la loro giornata è ancora piena di lavoro, di persone da assistere, da accompagnare e accudire. Irma si ferma a guardare le gemme sui rami, che ora si ingrossano, si schiudono per portare alla luce i germogli, che saranno nuovi rami, foglie e frutti. Sente di avere parole giuste da dire, ma non si fida, le parole sono importanti, lei è cresciuta sentendo parole offensive, sgradevoli e oscene.
“Irma, vuoi dirci qualcosa? Purtroppo non abbiamo molto tempo.”
“Gemma. Credo che la bimba sceglierà il nome Gemma”.
“È un bellissimo nome. Ora andiamo, si è fatto tardi.”