di Fabrizia Fedele

Fiumicino. Zona franca, tregua, intermezzo, passante dalle tenebre alla luce. Diamante è di nuovo immune al dolore. Già in taxi in corsa verso l’aeroporto, con l’aria fresca e rassicurante che circolava dai finestrini, si era sentita improvvisamente meglio: la casa dei suoi genitori, la malattia del padre e la sciagura che si stava abbattendo su di loro diventavano lontani, come un ricordo in dissolvenza. Poi l’ingresso al Terminal 1 l’aveva proiettata nella folla dei viaggiatori, coloro che sono in partenza, una categoria felice per definizione: l’insieme di quelli che vanno incontro a un’avventura, una vacanza, una storia d’amore, un nuovo lavoro, una nuova vita. Come era stato per lei quando due anni prima aveva lasciato Roma per Parigi, dove aveva trovato il suo pezzo di vita insieme a Carlo. Forse non sarebbe più tornata a Roma se non fosse stato per andare a trovare i suoi. Sempre un braccio di ferro serrato tra lei con il suo dinamismo e i suoi con le loro inossidabili convinzioni. Una lunga sequela di rifiuti a cui lei non riusciva a opporre la sua razionalità, ma soltanto la sua rabbia, una rabbia rossa e urticante che la faceva ripiombare nel passato, quando i suoi la trattavano come un’entità da plasmare secondo il loro volere. La scelta della scuola superiore. Un posto in cui si era sentita microscopica e dove aveva scoperto l’ansia. E poi l’università: anni di frustrazione senza requie. A un certo punto era riuscita a sottrarsi alle trame che il padre tesseva per lei. Non lo aveva più seguito, si era fermata e aveva preso un’altra direzione. Una strada che non era stata battuta da nessuno. Un lavoro da redattrice per una piccola casa editrice. Un Amore con la maiuscola, di quelli assoluti e ideali. Carlo. L’ebrezza. Il fuoco. La complicità. La tenerezza. Era stata felice. Con Carlo avevano deciso di scapparsene a Parigi. A Roma aveva sperimentato la perdita del lavoro e il senso di impotenza e avvilimento. Roma per Diamante era una città dove il tempo si dilatava a dismisura, Città Eterna perché chi ci vive è eternamente in attesa, pensava, in sospensione, in pausa permanente. Roma puzzava di marcio, di corpi in decomposizione, di miasmi pestilenziali. L’immondizia si stava lentamente impossessando della città. Le erbacce squarciavano l’asfalto come tentacoli di un mostro sotterraneo che stava salendo in superficie. Ogni volta che tornava a trovare i suoi sentiva che il fetore dei rifiuti marcescenti era sempre più acre, le esalazioni dei motori sempre più ingenti, certi giorni un sentore di bruciato aleggiava per le strade della città.
La telefonata di Carlo l’aveva distolta bruscamente e precipitata di nuovo nella calamità imminente. “Mio padre è molto peggiorato dall’ultima volta che siamo stati a casa loro”, aveva spiegato, “credevo che mia madre esagerasse, invece non esagerava”. Rivedeva suo padre trasfigurato nell’ombra di se stesso. Magro, con gli occhi arrossati e infossati, la barba e i capelli incolti e sporchi. Non si lavava più, aveva detto sua madre, non c’era modo di farlo lavare. Parlava poco, soprattutto inveiva contro tutti. Non si sapeva cosa fare. “Che dice il medico?”. “Di sentire il neurologo”. “E il neurologo?”. “Di aumentare le gocce”. Un lungo silenzio li aveva assorbiti entrambi. “Torno a casa per organizzarmi e poi ritorno dai miei: mia madre non riesce più a occuparsi di mio padre da sola”. “Ma c’è un badante che li assiste”. “Sì, ma non basta”. Aveva chiuso bruscamente la telefonata. Era intollerabile ascoltarsi mentre spiegava a Carlo la fine della loro vita insieme a Parigi. La luce che entrava dalla grande finestra nel soppalco del loro piccolo appartamento, i tetti della città, le pile di libri da leggere sparsi ovunque, il sorriso di Carlo con la tazzina di caffè in mano. La camminata a piedi per il quartiere e la libreria dove aveva trovato il suo posto: un viavai di umanità vivace e generosa.
Sentiva il dovere morale di trasferirsi a casa dei suoi per occuparsi di loro. Li odiava per questo eppure non riusciva a ignorarli. Aveva visto suo padre picchiare sua madre per la stizza, non essendo più in grado di esprimersi. Guardandolo negli occhi aveva avuto l’impressione che lui non l’avesse riconosciuta. Erano passati solo un paio di mesi dall’ultima volta che era stata da loro. La malattia avanza, senza cedimenti o ripensamenti, corre dritta alla meta. Aveva detto alla madre che forse era il caso di pensare a ricoverarlo in una struttura dove si prendessero cura di lui. No, si era opposta la madre. Voleva che tutto rimanesse come prima. Ma niente rimaneva come prima, aveva obiettato Diamante. Allora la madre aveva cambiato discorso. “Quando me lo fai un nipotino?”, le aveva chiesto con apparente naturalezza, lasciandola senza parole. Tipico di sua madre. Rimetterla al centro del discorso. Tirarla in ballo sul più bello, mentre si parla di tutt’altro, facendola imbestialire. Una campionessa della distrazione. E lei ci cascava sempre. Le aveva urlato che non voleva figli e lei lo sapeva benissimo, che la sua vita era perfetta così, e poi come le veniva in mente di parlare di bambini con suo padre in quelle condizioni. “Non ti arrabbiare, non volevo farti arrabbiare. Pensavo che un bambino ti potesse rendere felice. Anche tuo padre ne sarebbe felice”.
Mio padre non guarisce dall’Alzheimer se io faccio un figlio, pensava Diamante mentre si avvicinava ai controlli di sicurezza.
Che pensava la madre che bastasse spingere un bottone per fare un figlio? E che poi si sarebbero trasferiti tutti a casa loro, così lei avrebbe fatto la nonna?
Mancava un’ora e mezza all’imbarco, prima di passare i controlli sarebbe andata in bagno. Mai stata così in anticipo a una partenza.
A un figlio non ci pensava proprio. Cioè, in realtà ci pensava spesso, ma così, come un esercizio di fantasia. Le capitava di evocare una figura di bambino che correva sulla spiaggia e poteva essere il suo. Le succedeva anche di avventurarsi nella selezione dei nomi, ma solo al femminile. E questo era tutto.
Mentre teneva le mani sotto l’asciugatore elettrico che erogava aria calda insieme a un rumore sordo e pervasivo, aveva sentito un tramestìo provenire dall’esterno. Delle urla in lontananza e poi dei passi di corsa che si avvicinavano. Si era aperta la porta e si era materializzata una giovane donna minuta, trafelata e agitata che l’aveva afferrata per un braccio e l’aveva trascinata dentro uno dei bagni, senza che Diamante fosse riuscita a esprimere una reazione. “Aiutami”, aveva sospirato la ragazza, chiudendo la porta a chiave, “mio fratello mi sta cercando, non vuole che parta per Parigi”, le si era avvicinata all’orecchio, “ ti prego, aiutami”. Diamante si era lasciata avvolgere dalle braccia di quella giovane, sentiva il suo respiro affannoso, il suo odore che sapeva di cannella, di aglio e di cuoio. Erano vicinissime e la sconosciuta l’aveva avvolta in un abbraccio caldo e carnale. Indossava un vestito a fiori sopra dei jeans e il foulard marrone nella concitazione e nella corsa le era caduto sul collo, scoprendo i lunghi capelli scuri, sulla manica destra c’era uno strappo e sul dorso della mano aveva un taglio poco profondo ma aperto. “Come posso aiutarti? Io sto per partire per Parigi”, aveva sussurrato Diamante. “Anche io: a Parigi c’è mia zia che mi aspetta insieme alla mia nuova vita”, aveva sorriso appena, “devo solo imbarcarmi, devo sfuggire a mio fratello e ai suoi amici che mi stanno cercando per riportarmi a casa”. “Va bene, ma non possiamo restare qui dentro! Come facciamo?”. “Non ti preoccupare, basta che restiamo insieme, se tu rimani con me, loro non avranno il coraggio di picchiarmi e portarmi via”. “D’accordo, però prima di uscire da qui, mettiti questo e i miei occhiali da sole”, aveva detto Diamante, aprendo il trolley e tirando fuori il suo chiodo di pelle nera, l’aveva aiutata a sfilarsi il vestito dalle braccia e le aveva passato il chiodo che lei aveva messo sopra una maglietta bianca, poi Diamante con un gesto velocissimo le aveva preso tra le mani i lunghi capelli li aveva tirati a coda di cavallo ci aveva avvolto il foulard. “Bene, siamo pronte a uscire, no aspetta…”, rovistando nella borsa, aveva tirato fuori una pochette e poi un rossetto che le aveva messo sulle labbra, infine le aveva inforcato i suoi occhiali neri da sole. “Andiamo”, aveva detto Diamante e si erano avviate verso il controllo di sicurezza, l’una accanto all’altra, come se si conoscessero da sempre.
“Mi chiamo Marjan”.
“Diamante”.
In una fuga….due storie…
Maria Carmela
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Mi sono riconosciuta in questa donna che non si sa se farà ritorno a Roma: ogni volta che parto per qualunque viaggio dentro di me penso che forse potrei non tornare…
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