di Maria Laura Centi

Seduta sul vecchio divano in quella grande casa ormai vuota e fredda, circondata da un’infinita quantità di documenti, fotografie e carte sparse intorno a sé, Fabiola leggeva incredula un piccolo foglio di carta ingiallita. Aveva già aperto un numero impressionante di lettere tutte ben conservate nelle loro buste, di biglietti augurali, di immagini sacre, di ricordini funebri di nonni, bisnonni, zii e cugini, ed ora aveva fra le mani questa lettera che risaliva al 1958, ancor prima che lei nascesse: “Mio caro, lascia anzitutto che ti dica tutta la mia gioia per aver ricevuto tue notizie: ti ho sentito così vicino…e ne avevo veramente bisogno, poiché mai mi sono sentita così sola come in questi giorni, in cui non ho vissuto che del ricordo delle ore trascorse con te e nella speranza delle altre che vorrai donarmi. Staremo sempre assieme noi due, vero? Carissimo, scrivimi anche poche righe, mi basterà il tuo pensiero”.
Aveva riconosciuto subito la calligrafia fine e ricercata di sua madre e si era fermata sorpresa dopo poche righe. Aveva dovuto fissare a lungo la firma apposta in fondo al foglio, la sua bella firma, con la M elegante ed “arricciata”: Matilde. Proprio lei.
Sua madre. Sua madre che scriveva una lettera d’amore a suo padre. Nel luglio del 1958, a pochi mesi dal matrimonio. Lui era in visita alla madre nel suo paese natale, come si evinceva dalla conclusione della lettera.
Fabiola era incredula. Sua madre confessava come una fanciulla romantica il suo amore e la sua solitudine. Proprio la sua gelida, ostile madre, sprezzante dei sentimenti, confidava al padre la sua mancanza “ne avevo veramente bisogno”. Bisogno? Lei? Lei che aveva sempre dichiarato di non aver mai avuto bisogno di nessuno, lei che non voleva nemmeno sposarsi? Mamma, pensò, cosa mi hai raccontato?
Per tutta la vita, da quando era bambina, le aveva sentito ripetere come un mantra che non era mai stata innamorata, né di suo padre né di nessun altro. Si era sposata solo perché desiderava avere dei figli e questo confondeva ulteriormente sia lei sia sua sorella, dato che con loro era distante e distratta. L’amore è una “cosa da povere donnette, una debolezza”, diceva sempre, “tutti gli uomini sono egoisti”. Lei non era una “donnetta”, non faceva che ripeterlo, lei era emancipata, autonoma, forte, non si “faceva mettere i piedi in testa da nessuno”.
Non li aveva quasi mai visti andare d’accordo i suoi.
Chi eri, mamma? domandò alla muta immagine giovanile che le sorrideva da una delle tante fotografie sparpagliate intorno a lei.
Sua madre era morta ormai da quattro anni e suo padre non abitava più lì, forse non ricordava nemmeno di averci mai abitato.
Continuando a esaminare carte e ad aprire buste, ne trovò un’altra: novembre 1959. Lei era appena nata. “Mio caro, quando ti ho accompagnato alla stazione ero molto triste. E’ così lungo questo tempo senza di te, senza il calore del tuo amore, senza una tua carezza e un tuo bacio. Ti penso molto e ti amo tanto (non sono bugie come a volte tu dici). Spero che tante piccole cose che qualche volta non ti fanno stare di buonumore e non ci fanno godere quella felicità che potremmo avere, presto si concluderanno. Non vedo l’ora che tu ritorni da me. Non c’è difficoltà che non possa essere risolta…”.
Sua madre era ansiosa e trepidante, sua madre si sentiva triste. Sua madre diceva “Ti amo”. Non riusciva a crederci, aveva la sensazione di un bluff, talmente non la riconosceva in questa veste inedita che le veniva da sospettare che mentisse, che recitasse, oh sì, sarebbe stata capace di farlo, era possibile.
Mamma, chi hai imbrogliato? Lui o noi?
Ancora un’altra lettera, a questo punto si era messa a cercarle affannosamente: “Caro amore, scrivimi spesso: le tue lettere mi daranno aiuto e conforto. Ti bacio. Matilde.” Con la bella M svolazzante.
Leggendo “Caro amore” aveva provato un misto di stupore e tenerezza, un’infinita tenerezza per quella ragazza ventottenne che improvvisamente si rivelava dai fogli ingialliti come una sconosciuta; poi aveva trovato altre lettere, meravigliose e dolcissime nella loro semplicità e ancora, nel leggerle e rileggerle, faticava a riconoscere sua madre.
Le era sempre stato difficile comprenderla, nel senso di capire realmente chi ci fosse dietro la donna bellissima, altezzosa, severa e sprezzante che aveva conosciuto nella sua infanzia. Forse questo era il tassello mancante, forse era ciò che stava cercando nel suo frugare, perché aveva sempre pensato che quella di sua madre dovesse essere una facciata, una corazza costruita faticosamente e con dolore negli anni, una corazza che era andata ispessendosi sempre più, tanto che lei stessa aveva dimenticato la sé precedente e si era del tutto identificata con quel monumento di aridità emotiva che ostentava.
Suo padre doveva averla profondamente ferita in qualcosa di essenziale, di molto importante. Solo negli ultimi mesi della sua vita, quando la malattia l’aveva ormai fiaccata, sua madre una volta le aveva detto, guardandola con occhi smarriti, già sotto l’effetto della morfina: “Tuo padre mi ha lasciata sola”. Alla sua domanda “Quando, mamma? Di quando stai parlando?”, lei era sembrata interdetta, come se stesse frugando a fatica nella memoria. Poi fissandola aveva risposto “sempre”.
Ricordando adesso quel momento raro di confidenza tra loro, durato poco più che un istante, le tornavano improvvisamente alla memoria i lunghi, cupi ed ostinati silenzi del padre, quel suo isolarsi, quel rendersi inaccessibile, che poteva durare giorni.
Lui sepolto nel suo studio, tra libri e carte, muto, scuro in viso, lontano.
Lontano dalla madre e dalle figlie.
Era taciturno, introverso, suscettibile alle critiche, si offendeva e la puniva con un cocciuto e totale silenzio.
Non aveva mai pensato che sua madre potesse soffrirne, perché sembrava che non le importasse e che fosse lui la vittima. Nei continui litigi di cui era attonita spettatrice lei lo aggrediva con ferocia e lui dopo un’iniziale reazione rabbiosa si ritirava.
Fabiola nel suo intimo parteggiava sempre per lui che usciva umiliato e sminuito da questi scontri e crescendo lo aveva appoggiato apertamente contro di lei in diverse occasioni. Vedeva in sua madre ostilità e disprezzo verso suo padre e di riflesso freddezza e malcelato fastidio verso di lei. Non le era mai venuto in mente che la madre potesse invece soffrire non solo per lui ma anche nel sentirla contro di lei.
Il punto è che non aveva mai considerato la madre una persona capace di sentimenti positivi, perché in lei vedeva solo durezza e rabbia.
Mammina cara, pensò con tristezza parlando mentalmente alla fotografia, il tuo mito dell’autosufficienza, il tuo rancore, la tua incapacità di chiedere amore ti hanno intrappolata in un ruolo a tal punto da diventare, a volte, specie negli ultimi anni, quasi la caricatura di te stessa. Hai trascorso la vita ad insegnarci il disamore e poi ho scoperto che hai conservato queste lettere.
Provò una gran pena per quella ragazza bella e luminosa, elegante, piena di desideri e di aspettative, che era andata trasformandosi negli anni in una donna sempre più arida e incattivita dalle delusioni di un matrimonio insoddisfacente. Ma perché era avvenuto questo? Cosa era accaduto tra loro?
Continuando a svuotare scatole trovò anche tre lettere scritte alla madre da suo padre. Una sola frase le bastò per capire il tenore dei contenuti e l’intensità dei sentimenti: “Un forte abbraccio, tanto forte da toglierti il fiato e infinite altre cose che, se le scrivessi, farebbero incendiare questa lettera.
Ciao, amore e tesoro mio.”
Che peccato, mamma, disse sottovoce con le lacrime agli occhi, come avete fatto a sciupare tutto questo?
Che bello, complimenti!
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Bellissimo, la storia di un amore sciupato, inaridito dal tempo.
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