di Lorenza Cianci

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Non fissarmi in quel modo, santo cielo. Perché sei venuta fin qui? È passato un solo giorno, da quando ci siamo telefonate. Sei entrata dal retro; per poco, morivo d’infarto. Non ti ho fatto una copia delle chiavi, per tendermi agguati nel bel mezzo della notte. In cucina no: è una quinta così banale per le tue sceneggiate isteriche. Andiamo almeno in salotto! Guardati, sembri Shelley Duvall sul set. Ma dai, che hai da ridere? Va bene, come vuoi, è tardi, restiamo pure qui. Sono ancora in piedi, e devo andare a letto, d’accordo. Ma neanche tu dovresti essere qui, a quest’ora di notte; piuttosto, a casa tua, con tua figlia, e tuo marito. Pover’uomo. Ti rendi conto? Posa lì la chiffon cake, la scusa per cui sei venuta. Fammi il piacere, tornatene a casa, io sto bene, ne riparliamo domani, per telefono. Andrà meglio, credimi, senza la tua ridicola postura monolitica a farmi da Santa Inquisizione. Ti prometto che non metterò giù al tuo ennesimo rimprovero, o quando cercherai di dirmi con i tuoi soliti svolazzi verbali, ‘devi regolarti, hai una certa età!’, che ormai sono una vecchia senza chance. Lasciami sola, a tramortire le poche ore nuove che mi rimangono in questo vecchio Chardonnay. Sola, e basta. No, ti prego, ancora queste domande: che vuoi che abbia fatto oggi? Ho raccolto i fagiolini, l’unica cosa che cresce in questo maledetto fazzoletto di terra, d’estate. Ho scovato almeno 3 specie di insetti che non avevo mai visto. Ho fatto ricerche, aspetta, eccoli, li ho messi in una di quelle vecchie scatole di rullini usati, per osservarli meglio. Ecco una mosca minatrice sudamericana. Trasparente, scintillante: che il cielo se la porti, bestiaccia, per non dire altro. Ma cos’è questa faccia? Dai, non fare la schizzinosa. Perfetto, se la metti così, la smetto. Abbiamo chiacchierato abbastanza. Hai constatato da te che sto perfettamente. Falla finita, lasciami sola. Voglio stare qui, seduta a questa sedia, a contemplare le strisce di colore di quel Rotkho in orange appeso al chiodo, perdermi in quella terribile unghiata arancione, che graffia e striscia e scava sulla tela vergine del pittore e poi, nel taglio, come avanzo di una lotta, lascia traccia di quell’orange. Sta lì quel quadro, da una vita, penzolante, lì, messo lì, a coprire una brutta macchia d’umido dietro, nel tramezzo. Lo sai: l’arte, per me, è un congegno funzionale. Ma no, certo che no, non voglio impartirti una lezione sull’arte, cosa vuoi che te ne importi all’una di notte dell’atrocità di una pennellata innocente nell’abisso dell’indistinto grigiore di queste pareti. O di quella brutta voragine umida che nasconde. Eppure, la sera, questa contemplazione mi piace, e mi tiene viva.

Va bene, hai vinto tu. Siediti, e fissa anche tu un punto, un oggetto di questa stanza. Il pouf ferma porta a forma di gallinella con i tratti antropomorfi della massaia, o il portacassette, che conserva anche i tuoi ricordi. Siediti, forza, non potrò certo finire uno Chardonnay del ‘98 da sola. Forse, potresti raccontarmi tu, qualcosa. Il tuo viso: è così familiare e caratteristico, conserva nei lineamenti qualcosa della mia preistoria. Perché ti sei tanto truccata? Ma lo sai che occlude i pori questa maschera arancione; fa solo più vecchia, mica più abbronzata. I tuoi capelli, sono biondi; come i miei d’altronde, prima di questa implacabile sbiancatura, e questa colata di colore finta in testa, fiammante, irlandese.
Dicono che il rosso sia difficile da togliere, si fa prima ad abituarsene. Sono quasi 18 anni che lo porto. Sai cosa mi manca di più, mia cara? I lunedì dell’ ‘85. Erano sempre inizi settimana caotici. La giornata si chiudeva alla finestra a vetri che dava su via Caduti di Cefalonia, la sala fumatori al primo piano, giallastra, con le TV che si vedevano, come un’infrazione di specchi, a ogni angolo. Trasmettevano: i tg nazionali delle 20:00; techetécheté, e poi un cabaret di musicisti strampalati e pappagallo parlante. Mi trovavo lì, con un Galliano ormai inflazionato tra le mani, e non sapevo come ci ero arrivata. Ero giovane. In quella Bologna di tanti anni fa, mancava sempre il tempo. Prima che mi chiamassero a fare la bidella a Sant’Isaia, vendevo caramelle al Quadrilatero. Di pomeriggio diffondevo, vendevo i giornali per il partito. All’angolo con via Clavature c’era sempre un mendicante affetto da elefantiasi alle gambe, stava lì per una lira, e ti dava l’icona di Santa Clelia Barbieri in cambio.

Figlia mia, ascolta. In quella lotta perenne, per il pane, per la politica, per far festa, che è stata la mia vita, ti ho concesso di vivere. Credo, anche, molto bene. Per cui, non mi chiedere nient’altro. Attendi solo che anche tu ti compia, per te stessa. L’attesa corrisponde all’inesorabile naufragio nella vita, prima che l’inatteso abbia senso. Che grande beffa, vero? Stare qui, e non poterti rispondere, vorrei, mia cara, ma che ne so? Che vuoi che ne sappia, di quello che mi è successo, del futuro poi, neanche a parlarne. Ho fatto bene, ho fatto male, potevo fare meglio. Ti posso solo dire che quell’orange, sulla tela di Rothko, prima che diventasse questo quadro, che mi tiene viva… era crisi, movimento violento, che striscia e strappa. Sappi attendere le risposte, non cercarmi nelle tasche i segnacoli che mi tengono ancora inchiodata a questa vita, a questo maledetto fazzoletto di terra sterile. Sono una donna qualunque, prima di essere tua madre. Vecchia ormai, squilibrata, irriconoscibile. Lasciami qui adesso, a contemplare l’orange. Portami una bella orchidea la prossima volta che vieni, voglio vedere di far nascere dei keiki. Mia cara, a domani allora, ci telefoneremo. Mi raccomando, ciao, mia cara, chiudi la porta dietro di te, e dai la doppia mandata, non dimenticare.