di Zaira Rosselli

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Photo by Jorge Gardner

“Aiuto mamma vieni a prendermi!”… Ecco, ci siamo! È il momento in cui l’ansia degli ultimi mesi prende forma e l’ultima cellula immunitaria abbandona il mio corpo e lascia entrare i nemici che sicuramente saranno la mia fine.
Ma dura poco, poi scatta l’istinto primordiale, quello del “combatti o fuggi” e il mio non fugge, mai, di colpo torno lucida, di una lucidità che non mi appartiene, salgo in macchina e percorro i dieci km che mi separano dalla meta sfoggiando il lato brutale di quell’istinto: “Se hai fatto del male a mio figlio, ti strappo il cuore!”, lo ripeto anche a voce alta, come un grido di battaglia.
Parcheggio, tremante di rabbia e paura, ma alzo gli occhi e lo vedo arrivare, intero, spaventato e disperato ma intero, la rabbia si scioglie in sollievo, sta bene ma è sotto shock, tutto quello che voglio è riportarlo a casa.
Temevo questo momento dal giorno del mio compleanno, cinquantacinque anni, quando tornò da scuola e tutto d’un fiato con la foga di chi si è a lungo trattenuto mi disse: “comunque mamma, io sono gay”. Quel giorno piansi a lungo per il timore che non avrebbe mai avuto una vita serena e ripensai ai segni: il bullismo subìto e il trasformarsi da bambino entusiasta e socievole in ragazzino timido e solitario, fino a cadere nell’anoressia a sedici anni.
Periodo duro, in cui divenni il suo peggior nemico, rea di farlo ingrassare a suo dire di proposito, ma io sono roccia, il mio amore è tigre, ti fissa negli occhi e mette il terrore.
I mesi passarono, scanditi dai grammi, grammi pesati, grammi conquistati, grammi di rabbia scomparsi, mio figlio iniziò a stare meglio.
Poi un giorno smisi di piangere, ero fiera di lui che pretendeva rispetto, quando mi disse di essere innamorato di Alex ne fui felice, suo coetaneo, per nulla timido, conquistò anche me.
Purtroppo durò poco, quando Alex diede la notizia in famiglia, il padre non la prese bene, minacciò di mandarlo in un istituto correttivo. Cosa che ha innescato la serie di eventi che mi ha portato qui.
La madre di Alex, nel tentativo di far abituare suo marito all’idea, ha deciso che mio figlio andasse a casa loro. Oggi è la terza domenica che i ragazzi si vedono a casa di Alex.
Sono entrata a casa loro per capire cosa fosse successo, con mio figlio accanto, ho visto la porta della camera di Alex per terra e il padre con la cintura ancora in mano.
Aveva imposto la regola di lasciare la porta della stanza aperta, ma loro l’hanno chiusa, così dice. La rabbia che cresceva da mesi è esplosa, abbattendosi sulla porta e scardinandola. Poi aveva urlato a mio figlio di andarsene, minacciandolo con la cintura. Io ho abbracciato mio figlio e, prima che potessi dire qualcosa, la madre di Alex mi ha chiesto di non denunciare per non rovinare la sua famiglia. Il padre ha aggiunto che è meglio, altrimenti tutti avrebbero saputo che i nostri figli sono gay.
Non ricordo più nulla. Ho visto tutto nero. E poi mi sono ritrovata al pronto soccorso, dove siamo in attesa che ci visitino i medici. Ho del sangue sulle mani e il padre di Alex è pieno di graffi sulla faccia.