di Lorenza Cianci

Dieci orsetti gommosi galleggiano nel punch. Un Chivas Regal classe ’80 sta nel mezzo di bicchierini allineati come allo start di una corsa. Una sfilza di bignè alla crema chantilly capovolti, inzuppati d’olio, lievitati male, stramazzano su un piatto in porcellana a forma di foglia accanto a una grande Donabe giapponese, un portacenere kitsch. Alla radio, Mina canta: brava, brava, sono tanto brava, brava. Dove l’hanno trovata quella tovaglia, in stile Devorè? Una masnada di gente va, viene, brinda, saluta, bacia, scende le scale, accenna ironica dal balcone, torna indietro, dimentica qualcosa. Porta popcorn e i peggiori tramezzini che abbia mai visto. Sedie pieghevoli addossate al muro cadono, sbattono in terra, barche capovolte nel mare mosso del pavimento di gres. Cerco mia figlia. Hei tu, sì, dico a te: cerco mia figlia, si chiama Corinna, l’hai vista?
Mia figlia soffre della sindrome di Capgras. Il 5 giugno del ‘78 venne fuori in giardino come un cencio. Lo ricordo come fosse ieri, cielo benedetto, e mi disse: dove hai messo mia mamma, mia madre è stata rapita. Tu non sei mia madre. Sono passati quindici anni, da quel momento.
Nel corridoio uno, due, cinque, otto cavalletti piantati in terra mantengono tele aeree: il volto di un uomo, squadrato, naso lungo, ride malamente a denti sgangherati; una macchia gialla in un universo blu; degli occhi, di ogni forma, sembrano pesci fantastici in un abisso psichedelico di cnidari. Più in fondo, una cornice gigantesca, barocca, tonda e vuota, illuminata da una bajour giallastra, senza paralume. Forma un’ombra, se ci cammini attraverso. Uno specchio imperfetto. Mi faccio spazio, sgomito e mi allungo fino al salotto; cerco mia figlia: la conosci? Avanzo in un religioso silenzio di contemplazione, ma con lo sguardo inconscio di rimprovero. Il sofà broccato sta come una panchina alla mercé di chiunque. Affossato tra i cuscini, c’è un quadro, 50 x70, un ritratto. È di donna, è bellissimo. Mi assomiglia. Sono i miei tratti quelli, ma resi in una sorta di affettuosa catarsi. Caschetto nero stinto, un viso affilato a zigomi pronunciati, gli occhi globulosi e sporgenti, sembrano i miei, che sono miopi, ma più dolci. Sopra la testa un diadema di fiori intarsiati nell’oro, e piccole perle vere, di zaffiro, cadono prepotenti sulla fronte, larga, imperturbata. Una principessa Ming, compressa in uno sfondo porpora. Sono io, maestosa e distante. Lo ha dipinto Corinna, è sua questa creazione, è sua la firma: strabiliante. Corinna non c’è, zero, non c’è traccia di lei vivente in questo luogo, ma questa è opera sua. Siedo qui, con la principessa Ming, muta reincarnazione di me nell’impotente alterazione percettiva degli occhi di mia figlia. È complicato essere madre. Rumore, tele aeree conficcate nel pavimento di gres, superstiti orsetti gommosi galleggiano nel punch. Corinna non è qui, ma la sua paura campeggia libera.
È compressa, sullo sfondo porpora della tela della principessa Ming.