di Valeria Pritoni

S’infila tra le scansie dei biscotti: colori, scatole di diverse forme, sacchetti bene accatastati in ordine sugli scaffali, con dolci che la guardano suadenti dalle confezioni: vieni, vieni, senti, sono buono! Ma io opporrò resistenza, pensa Silvana e gira l’angolo, alla ricerca della carta igienica, dei tovaglioli e del rotolone da cucina, materiali neutri, privi di coinvolgimenti emotivi. In fila alla cassa, come al solito, si mette a osservare le scarpe di chi la precede. E’ una fissa, questa delle scarpe da guardare quando si trova in fila. Da bambina, a causa della bassa statura, quando era in mezzo alla folla, non vedeva oltre la cinta delle persone e allora si concentrava sui piedi, era il suo passatempo durante le attese e ancora adesso, che ormai è nonna, le viene di farlo spontaneamente.
Davanti a lei, vede un bel paio di décolleté nere e argento, le indossa una signora con uno splendido cappotto di lana rossa come i capelli che porta sciolti sulle spalle, è una bella donna dall’aria sicura. La ragazza che la precede porta due robusti anfibi militari sulle calze colorate e ha un viso dolcissimo e due occhi limpidi come una giornata di primavera.
L’uomo che guida la fila indossa un paio di mocassini di vernice… insolita la vernice di venerdì pomeriggio al supermercato. Le viene da osservare con più attenzione: è un signore sessantenne, brizzolato, leggermente panciuto, con un lungo cappotto grigio e una sciarpa, sicuramente di cachemire, un vero elegantone. La fila intanto si è mossa. La maggior parte dei carrelli sono stracolmi. Silvana pensa alla sua idiosincrasia nei confronti delle grandi spese alimentari, non sopporta di riempire il carrello di cibo per la dispensa, piuttosto torna a comperare ogni giorno qualcosa. Le grandi quantità le tolgono la visione dei consumi di casa e teme sempre di dover poi gettare nell’immondizia il cibo, ancora inutilizzato, ma ormai scaduto. Sua madre, che aveva sofferto la fame, le diceva sempre che la roba da mangiare non si butta, è preziosa. Questo diktat le è rimasto impresso anche se, a differenza della sua mamma, non sa cosa significhi fare la fame.
Ecco, finalmente è arrivato il suo turno. Carica sul nastro trasportatore i pochi prodotti acquistati e velocemente li mette nelle buste e paga il conto. Può avviarsi verso l’uscita.
Proprio sulla porta scorrevole sente una voce femminile che la chiama: “Silvana!? Ma sei proprio tu? Che piacere rivederti dopo tanto tempo!”.
Una signora sui quarant’anni, le va incontro a braccia aperte, la bacia sulle guance e, finalmente, a quella distanza, Silvana la riconosce: si tratta di Elvira, una sua ex collega di lavoro di un bel po’ di anni prima che andasse in pensione.
“Come stai? Ma quanti anni sono che non ci vediamo?”.
“Almeno una quindicina, io avevo ancora i bambini piccoli” risponde Elvira.
“I tuoi bambini! Mi ricordo, un maschietto ed una femminuccia, Paolo e Alice, se non sbaglio”.
“Bravissima, hai una memoria di ferro, complimenti! Io non mi ricordo niente. Con il daffare che ho tutto il giorno, arrivo a sera che neanche so come mi chiamo!”. Raccontando, Elvira assume un tono leggermente lamentoso.
“Eh quando si lavora, è dura! Per me, è stato un grande sollievo andare in pensione!”, ammette Silvana.
L’altra incalza: “Ma sai come sono fatta io, non mi piace lasciare indietro niente, perciò non sto mai ferma: la casa mi piace pulita e in ordine, i ragazzi mi piace mandarli in giro decorosi e poi li seguo nei compiti. Per non parlare del giardino che, a casa mia è bello grande. Inoltre, ad Angelo, mio marito, non piace mangiare sempre le stesse cose buttate là e allora bisogna dedicare tempo anche alla cucina. E poi ci piace invitare qualche amico a cena e così sto sempre indaffarata, non mi fermo mai. Anche adesso, ti devo salutare perché Alice esce da danza e la devo andare a prendere. Mi ha fatto tanto piacere rivederti. Son stati tempi belli quelli che abbiamo trascorso insieme. Magari una sera venite, tu e tuo marito a cena così ne riparliamo. Ciao, cara, ciao!”. Si avvicina, l’abbraccia e poi velocemente scompare dietro le porte del supermercato.
Silvana si avvia verso l’auto, un poco stordita dalla ex collega che l’ha travolta e, tra sé e sé, le viene da pensare a quante donne come Elvira conosce. Donne che si occupano di tutto, fanno tutto, che sono sempre in movimento.
Per un certo periodo della sua vita, quando aveva le bambine piccole, anche lei si era trovata in quei frangenti, invasata nel ruolo di mamma e di perfetta padrona di casa. Le era costato un esaurimento nervoso perché, ad un certo punto, aveva perso se stessa, aveva dimenticato cosa fosse veramente importante per lei, che cosa le piacesse realmente fare, a che cosa dare la priorità. Era crollata e per alcuni mesi aveva vissuto come dentro un tunnel. Il mondo fuori non la riguardava, nemmeno le figlie la interessavano, ripiegata su se stessa e sulla sua sofferenza, di cui non capiva l’origine, aveva paura di tutto, non aveva più desideri né pensieri positivi, solo angoscia e vuoto dentro.
Sale in auto e si rende conto che questo incontro con la ex collega, che avrebbe potuto essere emotivamente coinvolgente e piacevole, alla fine, l’ha infastidita. Tutta quella fretta, e quel racconto orgoglioso del cliché di donna perfetta, l’hanno profondamente irritata. Poi ci ripensa e prova una gran pena per Elvira e per tutte le donne efficienti come lei che dimenticano quanto sia bello prendersi il proprio tempo e il proprio spazio, con l’erba alta in giardino, la polvere sui mobili e i figli che prendono l’autobus da soli per tornare a casa mentre, sul divano, ci si perde dentro la trama intrigante di un bel libro.