di Anna Sidonio

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Sessant’anni e non sentirli?
Si fa per dire. Certo che si sentono. Ma noi facciamo finta di niente e non ascoltiamo.
Così, prendiamo una bella giornata di metà novembre, nel bel mezzo di un “semi lockdown”, di una semi-libertà, e con il rossetto spiaccicato sotto la mascherina ce ne andiamo al mare.
Dopo le lunghe camminate nei boschi, ora sentiamo il bisogno di vitamina D, alla nostra età ne siamo un po’ carenti. Come lo siamo di baci e abbracci ma di questi tempi, con le distanze imposte, ci sentiamo un po’ sperdute.
Una alta e bionda, due piccole castane, un po’ rossicce, con una lieve ricrescita che le rende affascinanti. Quei due piccoli corpi, ancora agili ma non proprio scattanti, sembrerebbero una graziosa cornice alla statuaria bionda, che sfoggia i suoi tatuaggi, mica fatti in gioventù, roba recente, passione incomprensibile per le due nanette, a cui ne basterebbero due o tre per coprire metà corpo. Ma la bionda non demorde, e finché ci sarà anche solo un piccolo spazietto di pelle, giura, verrà al più presto ricoperto. A chi le chiede: “ma.. e quando sarai vecchia?” Lei risponde sorridendo: “sono già vecchia!” e se ne fotte.
Ecco il vantaggio di avere una “certa età”.
Quel “ragionevole” distacco dalle cose poco importanti, che abbiamo cercato di raggiungere durante gli anni più giovani, quelli dei doveri, delle responsabilità, degli impegni, dei problemi, è arrivato così, spontaneamente, non ce ne siamo neanche accorte. Anni di yoga, pratiche meditative, libri sul pensiero positivo, recitazioni di mantra buddisti, cure omeopatiche, psicoterapie, non sono serviti allo scopo quanto l’avanzare dell’età e ci ritroviamo con i piedi in acqua, a novembre, a farci le foto distese sulla sabbia, a godere del sole inaspettato, e della libertà di scorrazzare su una spiaggia, un giovedì mattina, senza doveri e atteggiamenti consoni. La moretta piccola si tira su i jeans alla pescatora e procede imperterrita nell’acqua gelida emettendo gridolini da adolescente, seguita dalla statuaria bionda e mi salutano dall’acqua, neanche stessero partendo per una crociera nei mari del sud! Me ne sto a guardarle, le mie amiche, e penso che con noi ci siano moltissime altre donne. Un’intera comunità fatta da noi e le nostre madri e le nostre figlie, e le madri delle nostre madri. Insomma quei modelli di donne, a cui abbiamo cercato di non somigliare o che abbiamo ubbidito, o contestato, disprezzato a volte, o amato profondamente, o apprezzato soltanto in vecchiaia. E che comunque hanno lasciato il segno, contribuendo a farci diventare ciò che siamo.
E camminiamo scalze sulla sabbia fredda, in un posto in cui d’estate non metteremmo piede, pieno di gente e di zanzare, ma che ora appare splendido, abbandonato alle prossime intemperie, con cumuli di alghe raggruppate sul bagnasciuga, e rami depositati dalle maree, e ombrelloni accatastati dietro cabine rosa, e andiamo incontro al sole, ancora alto, pensando alle lunghe giornate casalinghe che ci aspettano, e ce lo godiamo tutto.
Però le nostre vesciche purtroppo hanno poca autonomia, e, nonostante anni di esercizi per rinforzare il pavimento pelvico, se non abbiamo un bagno nelle vicinanze, non possiamo andare lontano. No, dietro la siepe no, neanche a vent’anni lo facevo!
E poi è l’ora dello spriz, e un piccolo baretto squallido ci accoglie, disinfettiamo le mani e ci serviamo da sole, i contatti sono al minimo.
La tatuata bionda, che abbraccerebbe sempre tutti, che ti da le gomitate quando parla fino a farti venire i lividi, soffre più di tutte del distanziamento fisico. Perché se una persona le piace, donna o uomo, bambino o ragazzo, lei lo deve abbracciare. E si prende troppa confidenza.
“Tacadizza”, la chiamava un nostro amico, che, nel nostro dialetto, vuol dire “appiccicosa”. Una volta ha aspettato un attore fuori da un teatro, per dimostrargli tutto il suo apprezzamento e il suo amore, ma lui l’ha allontanata e le ha detto: “fatti i cazzi tuoi”. Ma questo non l’ha scoraggiata.
La questione viene analizzata, come sempre ci capita davanti a un bicchier di vino, e la piccola mora, racconta la sua difficoltà, nei contatti fisici, per la paura di essere fraintesa. E quindi a volte si trattiene. Ma di questi tempi, trattenersi, diventa sano e inevitabile. Per quanto tempo sarà così? Non sarà che poi ci abitueremo al punto che il “gesto barriera” come qualcuno lo ha definito, diventerà così automatico che non ce ne accorgeremo neanche più? E i bambini che stanno crescendo senza abbracci e baci di nonni, maestre con visiere e mascherine, ne porteranno le conseguenze una volta usciti da questo incubo? La fobia del contatto finirà quando la pandemia sarà stata sconfitta?
Facciamo un brindisi, che almeno coi bicchieri ci tocchiamo, e penso a me e alla mia avarizia di baci e abbracci e mi accorgo che non ne sento la mancanza, non più di tanto, e anche questa è una scoperta. E quante altre ne abbiamo fatte in questo tempo sospeso e infido! Certamente le carenze del sistema sanitario, certamente l’insufficienza dei servizi pubblici, le enormi differenze sociali, l’inquinamento delle nostre città dove l’aria è diventata più pulita durante la chiusura totale. Ma anche la coscienza degli altri, della loro assenza, della loro necessità. Abbiamo provato l’avversione e la nausea della tecnologia, di parlare su zoom, whatsApp, skype, messenger, e, appena abbiamo potuto ci siamo riversati nei campi, sulle spiagge, nei sentieri tra i boschi, in montagna, siamo diventati runner e ciclisti, scalatori e nuotatori compulsivi. E io, che cammino sui tacchi da quando avevo 14 anni per nascondere il mio metro e cinquanta, ho trottato per giorni sulla pista ciclabile con le scarpe da ginnastica, o intorno alla casa, e appena ho potuto nei sentieri del Carso, stupita di me e di questo nuovo bisogno.
“E’ l’età”, dice la piccola mora, “più passano gli anni e più la natura ti chiama!” “Pure la fame mi chiama” dico, nonostante mi sia rimpinzata di patatine fritte… “Non dovresti, è veleno per il colesterolo!”.
“Ma dai, io di alto ho solo quello, per un giorno, fatemelo celebrare!”.
E per celebrare degnamente i “colesteroli alti” (mica solo il mio) si va in “Strada della grappetta” dove ci ricordiamo di un ristorantino di pesce, dove si mangia bene e si spende poco. Gestito da una famiglia albanese, giovane coppia con tre figli piccoli che fanno i compiti all’interno del locale. La signora è giovane bella e accogliente, e ben disposta alla chiacchierata. Niente di meglio per la statuaria bionda che, non potendola abbracciare, si prodiga in mille complimenti, le annuncia che ci siamo già state, la ragazza sorridendo finge di ricordare, e ci fa accomodare all’aperto, che il sole è ancora alto, e io posso fumare, e c’è una zuppa di cozze e vongole meravigliosa.
“Per fortuna possiamo ancora lavorare, non ci hanno ancora chiusi, bambini stanno con me, mio marito alla griglia, facciamo tanti sacrifici, ho aperto anche la domenica, che se no si guadagna poco, ma bisogna lavorare, mi porto anche bambini con me, devono stare buoni…capire che mamma lavora…vino bianco o rosso?”.
“Bianco grazie”, dice la statuaria bionda, “ma che bella che sei”… (che lei si prodiga sempre in complimenti sinceri e ovviamente vorrebbe abbracciarla…)” Avete tanta gente oggi, bene no? Mi fa piacere”.
“Grazie signora”.
“Nooo, non chiamarmi signora”.
“Oh mi scusi, ha ragione, sì oggi tanti clienti ma pochi che lavorano, perché quelli che hanno contratto di assunzione stanno a casa per piccola malattia, che devo fare contratto per legge, ma no è giusto, se chiamo ragazze senza lavoro e dico vieni tra mezz’ora vengono subito a lavorare, senza contratto, senza niente, pago ore che lavorano e no fanno storie…”.
Il vino è buono, ma l’espressione della piccola mora è cambiata e anche i nostri sorrisi ora appaiono un po’ forzati.
“Non ti piace vero?”
“No. Brava ragazza, ma l’ultima frase poteva risparmiarsela. Credeva di fare colpo dicendo che schiavizza ragazze facendole lavorare in nero?”.
Lo so, lo sappiamo, certi atteggiamenti ci fanno accapponare la pelle. E non serve neanche parlarne. Perché siamo vecchie, e la “moda” dei lavori senza contratto non ci va ancora giù, non riusciamo a stare al passo coi tempi e ognuno ha le sue intransigenze. Ma che ne sa la ragazza nata negli anni ’90? Anche i nostri figli devono barcamenarsi tra il bisogno di lavorare e la coscienza di farsi rispettare, inculcata da padri e madri fanatici dei diritti e della dignità dei lavoratori! Ma la ragazza è simpatica e, non sappiamo niente di lei e della sua storia, e la zuppetta di cozze è una favola.
Si va a prendere il caffè in un bar elegante di città, nella piazza principale, e mentre io e la statuaria bionda ci fumiamo una sigaretta all’aperto, la piccola mora esce dal bagno, e si ferma sulla porta, sorridendoci, fiera, nel gesto di disinfettare le mani per bene come ci raccomandano, dito per dito, ma il gesto diventa un po’ ambiguo, suscitando gli sguardi maliziosi e stupiti di alcuni clienti, e le grasse risate di noi due di fronte alla sua ingenuità. E quanto ci fa bene ridere come cretine e riuscire a dimenticarci di noi e delle nostre ferite, per un po’. Ce lo meritiamo, nonostante le vite non siano leggere, né semplici. Nonostante le meravigliose parole di Natalia Ginzburg che in una lettera alla sua amica Alba De Céspedes, scriveva: “ Le donne hanno la cattiva abitudine di cadere ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla. Questo è il vero guaio delle donne. La tendenza a cascare nel pozzo e trovarci una possibilità di sofferenza sconfinata, che gli uomini non conoscono, forse perché sono più forti, o più in gamba a dimenticare se stessi…”.
Ci siamo cadute tutte nel pozzo, chi prima chi dopo, siamo risalite, e ricadute di nuovo, ma abbiamo la grande capacità di volercelo raccontare. E allora il pozzo diventa meno profondo.
E, dimenticandoci di noi stesse, ce ne torniamo verso casa, ascoltando Fiorella Mannoia e Vasco Rossi e i Radiohead, e facciamo ancora una pausa “sprizzetto” sedute sul molo al tramonto, e mi chiedo come si possa vivere in una città senza mare. E riusciamo perfino a stare zitte per un po’, che ci basta il colore del cielo e il rumore del mare.
“Me la scrivi questa giornata, amica?” dice la bionda rollandosi l’ultima sigaretta.
“Te la scrivo? In che senso? Devo fare il compito tipo Siamo tornate a casa felici della bella giornata trascorsa?”.
“Sì, così non la dimentico…che la memoria con gli anni si accorcia…ma poi un bel finale lo trovi, tu che non sei banale…”.
“Ok”, dico…ma un altro finale, al momento, non mi viene.