di Maria Laura Centi

Sono arrivata alla casa al mare, chiamata dalla vicina per la caduta di un tratto di muro del giardino di confine, niente di grave per fortuna. Appena sistemata la questione il desiderio è stato subito di scendere a vedere la mia amata distesa azzurra, nonostante la giornata sia umida e ventosa. Ho aperto il piccolo cancello di legno che affaccia sulla spiaggia e mi sono ritrovata davanti il mare, furibondo e bellissimo: onde che s’innalzano e si aggrovigliano, si rincorrono, si schiantano sulla riva in un turbinio di schiuma. L’odore pungente di salsedine mi riempie i polmoni e finalmente riesco a fare un respiro lungo e profondo, di sollievo e di liberazione, quello che non mi riesce mai. In città vivo con i polmoni contratti, i miei respiri sono brevi e mozzati.
Sento un impeto di felicità che mi allarga il cuore, mi viene in mente la celebre frase di Totò a Oriana Fallaci nell’intervista del ’63: “Vi sono momenti minuscoli di felicità e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza”. Di attimi come questo. Mi guardo intorno, sulla spiaggia non c’è anima viva, sono sola con il mare. Mi calco il cappuccio del giaccone sulla testa e decido di fare una passeggiata sulla riva, ma scatta un allarme nella mia mente: e se qualcuno sbuca fuori per aggredirmi o derubarmi?
Sto già per bloccarmi e decidermi a guardare il mare restando a distanza di sicurezza dalla casa, però il desiderio di camminare prende il sopravvento. Mi sforzo di andare un po’ oltre, cammino lentamente sul bagnasciuga, farò poche centinaia di metri e poi tornerò indietro, mi dico. Giusto il tempo di assaporare il piacere del movimento in libertà, con questo spettacolo incredibile del mare in inverno, con il vento che qui sulla riva è sferzante e le onde che mi corrono incontro. Sono contenta di essere sola, lontana da casa, che è diventata una prigione da quando, finita l’estate, siamo di nuovo tutti rinchiusi in questo tempo sospeso ed eterno.
Sì, sto bene, voglio continuare a camminare, al diavolo questa paura assurda ogni volta che mi trovo in un luogo solitario, proprio quando mi accorgo di stare bene in un luogo solitario. Perché proprio io e proprio ora dovrei incontrare un malvivente? Spingo lo sguardo in lontananza, sperando di intravedere qualcuno che tranquillamente passeggia come me, macché, non c’è l’ombra di nessuno. Non importa, vado avanti, respiro a pieni polmoni, comincio a sentirmi più serena, mi rilasso.
Oddio, e se comparissero dei cani? Cani randagi, il mio terrore più grande, ancora maggiore di quello delle aggressioni. E’ probabile incontrare un cane randagio su una spiaggia deserta, sarebbe ancora peggio di un malvivente: al mascalzone gli consegni la borsa e via, ma di fronte a un cane? Sarei del tutto impotente, mi è già successo tanti anni fa, ma non ero sola, c’era mio marito che riuscì ad allontanarli. Eravamo al laghetto dell’Eur, di sera: io ero andata in bagno e sentii abbaiare, chiamai mio marito che non rispose, perché era concentrato a restare perfettamente immobile e silenzioso per non venire aggredito. Dopo un bel po’ mi sentii chiamare “esci, vigliacca, se ne sono andati!”.
“Mi avresti lasciato sbranare senza neanche tentare di aiutarmi”, mi disse ridendo, più tardi, passata la paura, perché aveva avuto davvero paura anche lui quella volta.
E’ sempre stato così, fin da bambina avevo il terrore dei cani: mia madre raccontava che un cane mi si era slanciato contro quando ero in passeggino e che da allora avevo cominciato ad essere spaventata. Io naturalmente non lo ricordo, però di fatto ogni volta che faccio una passeggiata in solitudine, ad esempio nel parco sotto casa, il piacere della camminata nel verde è rovinato da quest’apprensione estrema all’idea di incontrare un cane sciolto, anche se accompagnato dal suo padrone. Figuriamoci oggi su questa spiaggia deserta.
Sento la mia paura crescere, la avverto come una stretta allo stomaco, un’ansia che sale, sto camminando già da un po’, è il caso di tornare indietro ora, però che peccato, è così bello qui, sono quasi arrivata alla foce del ruscello che si riversa in mare, quello dove io e mia sorella andavamo da piccole a prendere i pesciolini col retino, ma sì, stavolta voglio vincere questa paura, voglio arrivare fin lì.
E se l’unica volta nella mia vita in cui accetto il rischio è proprio quella in cui un branco di cani selvaggi mi assale? Esito per un attimo, chiudo gli occhi, li riapro, mi guardo intorno, è proprio deserto: mi butterò in acqua, decido, e nuoterò al largo nonostante il gelo, il mare mosso, il fatto che i cani nuotino. Morirò assiderata, affogherò.
Mi fermo un momento, sto ansimando, questa tensione mi strema, mi toglie energie. Sono così stanca di avere paura, sempre paura di qualcosa ogni volta che sono felice, ogni volta che tutto va bene. Quest’aspettativa ansiosa che qualcosa o qualcuno interverrà a rovinare i miei momenti migliori, che qualche sventura accadrà, grande o piccola, ma accadrà. Anni di analisi sono serviti a capire perché mi succede, ma non a eliminare quest’emozione sgradevole. Poi, certo, razionalizzo e ridimensiono, ho le mie strategie di difesa, però la paura in sottofondo resta.
E allora no, oggi non mi fermo, se arriveranno i cani morirò sbranata, pazienza.
Sono arrivata al fiumicello, ce l’ho fatta, è bellissimo, proprio nel punto in cui si congiunge con il mare si è posato un gruppo di gabbiani; prendo il telefonino per scattare qualche foto, poi faccio anche un video, sono proprio contenta e mi sento leggera, molto leggera.
So che dovrò ripercorrere la strada a ritroso per tornare a casa, ma sorprendentemente sono tranquilla, la paura si è dissolta, ho vinto io.