di Alice Scuderi

È una bella confezione, i prodotti sono dentro una scatola di latta viola a pois, immersi in un pot-pourri che profuma di lavanda. L’aroma attraversa lo strato di plastica che cerca di frenarlo delicato come un pugno. È indubbiamente bella, tutto posizionato nel modo giusto, la giusta gradazione dei toni del viola, la quantità giusta di petali. Allora perché mi viene da vomitare?
Un bagnoschiuma, uno shampo, un profumo per ambiente.
Sorrido senza mostrare i denti, che scricchiolano sotto le labbra tese.
Grazie, le dico, cercando di aprire la bocca il meno possibile, temo che possa uscirne un tono di viola tendente al nero che la turberebbe di sicuro.
Nessuno ci fa caso, nemmeno lei, sono tutti troppo impegnati nello scrutare i loro pacchetti, vedo che il mio è stato messo in fondo, incartato con carta da pacco marrone, schiacciato da confezioni e fiocchi sfacciati, piccoli animali che nascondono sotto colori sgargianti i loro veleni.
Non sento i commenti, le risatine, i ringraziamenti più o meno fasulli; continuo a guardare la mia confezione regalo, penso a mia madre.
Le ha sempre odiate, come me. Ma non si è mai fatta troppi problemi nel dirlo. Le bastava una frase, buttata lì, grazie, vorrà dire che mi laverò più spesso! detta con un tono di voce di un’ottava più alto del normale e un sorriso stirato da anfetamina, era la sua preferita, perché lasciava sempre il malcapitato interdetto, con un effetto sorpresa che la faceva ridere come una matta quando poi lo raccontava.
Il divertimento durava poco però, era una messinscena; non sopportava i regali preconfezionati, il sarcasmo era perfetto per celare la mestizia che le precipitava addosso: non c’è niente che parli del nostro rapporto, niente che dica quanto ci tieni a me, in questo regalo uguale ad altri milioni, incartato da mani non tue. Parla solo di soldi, di aridi scambi commerciali.
Perché cazzo me l’hai regalato?
Non era tanto ciò che c’era dentro, ma il materiale che lo avvolgeva, plastica scricchiolante e l’idea che nessuno avesse più voglia di fare uno sforzo creativo, a farla imbestialire.
Io non riesco a staccare gli occhi dalla mia di confezione, dal bagliore tetro che manda la sua copertura polimerica: è facile guardarle attraverso e tutto sembra esattamente com’è, invece il pot-pourri è messo solo per nascondere il vuoto di una scatola troppo grande per contenere tre flaconi. Avverto chiaro lo sforzo disumano di apparire irreprensibile, un regalo misurato ma elegante, generoso ma non troppo, eppure la scatola è un po’ sbreccata sul fondo, si intravede un punto di ruggine, il bagnoschiuma contiene additivi sintetici, l’odore di lavanda è troppo spinto.
Mia madre è sempre stata una che non le mandava a dire, amavo questo tratto del suo carattere salace ma mai rozzo, diceva perché leggeva tanto, perché usava la testa sua per ragionare, diceva.
Da bambina nel parco mi lasciava correre, non mi chiamava ogni cinque secondi per chiudermi meglio il cappotto, per soffiarmi il naso o per dirmi di stare attenta. Sapevo che appena avessimo varcato il cancello lei si sarebbe seduta sulla solita panchina, avrebbe tirato fuori il mazzo di carte e i suoi occhi non si sarebbero più posati su di me. Io cominciavo a correre, correre, sfioravo gli argini del torrente che costeggiava il parco, esploravo i cespugli più fitti che agli altri erano proibiti per via delle siringhe. Se avevo bisogno sapevo che avrei potuto chiedere a qualche altra mamma, di quelle che seguivano i loro figli a pochi passi di distanza. Sapevo che per quanto forte avessi gridato il suo nome, lei si sarebbe limitata ad alzare le spalle e non sarebbe venuta, lasciando a me la possibilità di scegliere. Mi piaceva che fosse diversa dalle altre, né fiocchi né pot-pourri o belle scatole colorate.
Allora vivevo avvolta nella carta trasparente e tutto mi sembrava esattamente come lo immaginavo io. Ora i difetti mi saltano agli occhi come illuminati da luci fluorescenti.
La crepa si è aperta inaspettata, un terremoto di magnitudo 8 che è arrivato senza scosse di assestamento.
Io parlavo alla madre senza fronzoli, che amava i regali creativi, che mi lasciava correre, che vedevo chiara e netta attraverso uno strato invisibile.
Le ho detto che non voglio avere figli, che non mi interessa farmi una famiglia. Le ho detto che preferisco giocare a carte senza lasciare che mio figlio corra da solo e chieda aiuto ad altri.
Non ho dato troppo peso alla cosa. Una di quelle conversazioni rilassate che si fanno mentre si cammina e i neuroni sono troppo impegnati ad elaborare movimenti e immagini.
Dentro al parco, il parco della mia infanzia orfana, quel giorno gli schiamazzi dei bambini creavano una sinfonia violenta, urla di lupi e draghi, pianti sguaiati, nomi ripetuti fino allo sfinimento, era tutto troppo, come un grosso fiocco dorato messo su una piccola scatola delicata.
Era una giornata d’aprile fiera, il cielo che spiccava nel suo azzurro pulito, il sole così bianco e lucente da perdere la sua forma tonda per diventare solo una macchia luminosissima e indefinita.
Parlavo di cose sciocche, con mia madre non mi concedevo mai il lusso della profondità.
Un pallone mi colpì alla gamba. Una bimba sdrucita, i pantaloni bucati all’altezza delle ginocchia, i capelli arruffati legati solo da una parte, il labbro superiore bianco di muco secco, mi si avvicinò per recuperarla. Non mi disse niente, né scusa né ciao, mi fissò solo con i suoi enormi occhi, indefiniti e feroci come il sole di quel giorno. Nessuno degli adulti presenti disse qualcosa, nessuna di quelle presunte madri, appoggiate ai loro telefonini.
– Non lo voglio un figlio – ho detto quasi ringhiando – non ci voglio finire così.
E dicendolo ad alta voce, per la prima volta, mi sono sentita libera.
Paolo aveva cominciato a parlarne, ma ero brava a svicolare, a rimandare, come se un figlio fosse una serie tv su Netflix che si può rivedere quando si vuole.
Prima c’era la casa da comprare, poi da aspettare un contratto migliore, e la vacanza in Portogallo che sognavamo da una vita. I bambini erano tenere pubblicità di pannolini che interrompevano la visione emozionante del nostro film.
Poi sono cominciati ad arrivare i figli delle coppie di amici.
Le serate si sono fatte sempre più complicate: cene sul presto, cene a casa con poppanti attaccati al seno, aperitivi vicino a parchi gioco, un caffè al volo mentre si compravano tutine nuove.
Io tornavo stremata, e con soddisfazione cinica mi lasciavo andare sul mio divano di pelle pensando a tutte le cose che avrei potuto fare, ma che non avrei fatto per pigrizia, a differenza delle mie amiche madri. Anche Paolo all’inizio era mio complice; ci guardavamo negli occhi e quasi in sincrono ci ritrovavamo a sussurrare – Che palle i bambini! mentre le comodità delle nostre vite adulte ci stringevano nella loro dolce morsa.
Ma poi. I famosi ormoni che dovrebbero attivarsi come sveglie fastidiose nelle ghiandole femminili, si sono risvegliate sotto la pelle di Paolo. E improvviso come un temporale estivo, il suo cielo è cambiato e ha cominciato a cercare un senso a tutto cercando di diventare padre.
Ogni cosa messa sotto la lente di questa scelta, il nostro lavoro, la nostra casa, noi due.
Il temporale è arrivato sopra di me, e mi ha scaricato addosso la sua grandine irrazionale.
– Ma dai, è solo una fase – ha detto mia madre con un’alzata di spalle, buttando fuori il fumo della sigaretta a coprire le sciocche affermazioni della figlia – Il tuo è solo un capriccio.
Nonostante la reciproca antipatia, mia madre e Paolo avevano usato quasi le stesse parole per annichilirmi.
– Non sono una bambina. – Trovavo le parole a fatica, impantanate dentro una melma viscida.
– No, vero, sei una donna di trentatré anni che vuole continuare a vivere come un’adolescente.
Mia madre fumava e camminava lenta, si soffermava a guardare i fiori delle case accanto a cui passavamo e la sua voce aveva la pacatezza ridicola dei preti che tentano di insegnare la virtù a patetici peccatori.
– Io spero sia solo una fase Clara, non credo proprio tu ti voglia trovare vecchia e sola a guardarti indietro e vedere che non hai lasciato nulla. I rimpianti sono peggio del cancro, ti mangiano dentro. Guarda tua zia Cecilia.
Rimasi ferma immobile, i pugni stretti, prendendo grossi respiri per cercare di non lasciarmi andare, ma sentivo già gli occhi tradirmi. Mia madre ci mise un po’ ad accorgersi che non ero più al suo fianco. – Clara ma che hai?
– Quindi i figli per te cosa sono? Badanti per la vecchiaia? Investimenti immobiliari da lasciare in eredità?
– Ma che discorsi fai? Lo vedi, parli come una ragazzina. Lasciamo perdere, quello che ti dovevo dire te l’ho detto, per il tuo bene, l’unica cosa che mi interessa.
No! avrei voluto dirle risoluta, invece l’ho urlato, proprio lì in mezzo al parco. Due tortore spaventate si sono alzate in cielo, le madri mi hanno guardata, i bambini mi hanno guardata, mia madre ha lasciato cadere la sigaretta. Ho urlato di nuovo e mi sono messa a correre.
Ho lanciato il telefono in un fosso e ho continuato a correre, fino a che non ho sentito i crampi tagliarmi il respiro.
Paolo era a casa quando sono rientrata, ormai a sera, furioso con me.
– Tua madre mi ha detto quello che è successo. Ma sei impazzita?
Io non ho detto nulla. Sono andata in camera con le scarpe ancora piene di fango, sapevo di farlo incazzare così. Ho preso la valigia dall’armadio e ho cominciato a buttarci dentro roba.
Lui mi parlava, urlava, rideva, non ricordo quante cose mi ha detto. Non sentivo veramente nulla.
Non c’era niente da spiegare, io ero una persona che lui non aveva mai conosciuto.
Il mio volto sorrideva dalle foto appese, abbracciata a lui, mi stava salutando per l’ultima volta. Ho sorriso anch’io all’immagine fissa che sono stata. Paolo appoggiato al comò mi guardava con una rassegnazione cattiva. – Tu sei pazza – borbottava a mezza voce, con chiarezza feroce perché a me non sfuggisse nemmeno una sillaba –Tu sei pazza, come tua madre.
Io non gli ho detto nulla, volevo lasciargli almeno la soddisfazione della rabbia.
Io mi sentivo bollire dentro, la mano mi scottava quando ho afferrato la valigia.
Sono uscita in silenzio, nelle gambe la voglia di andare e sapevo esattamente dove. Avrei bussato alla porta di quell’imbecille del mio ex, nel cui letto avrei trovato il conforto umido che cercavo.
Niente storie, niente sentimenti inutili. Abbiamo scopato tutta la notte, solo due corpi bisognosi di un contatto effimero ma onesto. Volevo zittire la testa e il cuore, ho lasciato parlare il ventre e il sangue, e cavoli come hanno cantato! Al mattino ero pronta, pronta per essere ciò che volevo.
Sono due anni che non parlo con mia madre, due anni che non torno laggiù.
No, non a casa, la casa sono io ora, qui, in questo esatto momento.
Mary sta aprendo il mio regalo, un libro con in copertina il disegno di una vulva stilizzato.
Il momento è strabiliante: lei non sa che dire, lo tiene sulle gambe, le guance già colorate dal vino che avvampano, le altre colleghe che cercano di sbirciare, l’imbarazzo è solido come i bicchieri che riempiono il tavolo. Io scoppio a ridere e nel silenzio del nostro gruppo cade una bomba.
Rido così forte che la scatola viola a pois cade, il pot-pourri ovunque, un flacone si rompe e il liquido impregna veloce la confezione. Ecco come muore un regalo preconfezionato.
Lo raccolgo e glielo appoggio in grembo. Sono ancora tutti muti, gli occhi sgranati addosso, mi sento la regina di un film dell’orrore.
– Grazie, e comunque odio la lavanda.