di Lorenza Cianci

Siamo ancora qui, sedute alla vecchia sedia a dondolo della veranda e cantiamo Viola Valentino con l’ultimo bicchiere di Cabernet Sauvignon poggiato sulle gambe scosciate in un esausto tramonto estivo. Le begonie fanno da cornice alla nostra allegrezza di campagnole possedute da quel caratteristico, mediocre, sentimento del tempo, tale da convincerci che non vi siano, a sessant’anni, alternative migliori a questo tipo di divertimenti casalinghi. Doppio mazzo di carte francesi, un burraco annoiato scandiva le nostre offese silenziose e le nostre rivincite verbali. Siamo sempre noi, noi due. Tu hai smesso di dire le parolacce perché sai di dover morire presto, ma il tuo viso è un tableaux vivant che non lascia dubbi in merito alle tue disapprovazioni. Il finocchietto selvatico, a pochi metri da noi, emana un odore che, senza dubbio, ricordiamo sin da fanciulle. Durante le nostre gite, raccoglievamo le sue infiorescenze e le stendevamo al sole, con i rametti ben aperti: piccole creature stilizzate, con le braccia crocefisse al cielo, imbrunivano, seccavano e rammollivano, poi, come carcasse acquatiche nell’umidità acetata delle dispense.
Ad agosto di cinquant’anni fa non si faceva altro che correre a filo dei muretti con le pattine di cuoio. Il sole implodeva nella linea di quell’orizzonte di pietra immaginario. Lentamente. E gemeva e gemeva, veemente di tornare a cantare dopo qualche ora. I tuoi vestiti belli ondeggiavano sulla linea dura della pietra a secco. Olà, olà, sentivo un rumore muto dondolare al filo del muro. Destra, sinistra, l’andamento della ruota a campana della gonna del tuo abito scandiva il vento. Non c’era niente, di quei fiori del vestito, a fondo blu, che proponevi ogni giorno alla mia vista, che somigliasse al paesaggio naturale in cui eravamo immerse. I fiori sulla stoffa vorticavano nella landa inamidata a misura del tuo corpo e morivano nell’indistinto di un blu infeltrito sui seni e sulle maniche, sfiorivano come eserciti di garofani nell’abisso del fumo della notte.
Eppure, tu dettavi mode, cavalcavi il senso della possibilità.
Dieci anni dopo, quella stoffa scadente ciondolava ancora sugli stendini delle palazzine del quartiere popolare 167. I chiodi ai muri scandivano spartiti di maniche a sbuffo come vele col vento in poppa. Era una cascata in fiore, la stoffa industriale piovente dai muri, a deviare gli occhi dei passanti dalle cataratte di intonaco corroso dall’incuria urbana. Lavata, la stoffa, a 60 gradi, in lavatrici di nuova invenzione. Lavatrici americane che entravano negli spazi angolari di case di 30 metri al quadrato e che andavano forti, negli spot dell’epoca.
Un ricordo, una pubblicità in tv. Vedeva ritratta una grande lavatrice alla fine del suo ciclo di vita. Veniva, bianca splendida, verso di me e colpiva iconicamente il mio immaginario di ventenne. Una signora cotonata apriva l’oblò, una fontana d’acqua spruzzava fuori, inclemente. E poi, una voce tuonava, fuori campo, come un dio maschio dal cielo: “QUANDO SI TRATTA DI CAMBIARE, IL SESSO DEBOLE NON ACCETTA DEBOLEZZE”.
Tutte le mamme degli anni ‘80 volevano la lavatrice americana. Io la conoscevo dalle varie rappresentanti che zia Gloria invitava per fare dimostrazioni pratiche e passa mano di dépliant. Tu avevi, già da qualche anno, una Speed Queen.
La mia palazzina faceva otto piani. La mia casa di famiglia era al terzo. Tutti avevamo il balcone, tutti comunicanti: «Scendi! Scendi! Muoviti!», un’ampia paglietta con nastro e fiore mi gridava dal basso e il suono di quel fastidio evaporava come fa la pioggia sul manto autostradale, invadeva ogni stanza della casa con ansia pressante. Eri tu, che mi chiamavi. Se non sentivo, il coro di voci maldestre delle condomine rimbalzava dal primo piano, risaliva come granchi gli scogli. Non avevi il dono dell’invito cortese. Non accettare, poi, sarebbe stato un più grosso rischio per me, data la tua proverbiale permalosità e la mia più impotente remissività.
Andammo in spiaggia, in motorino, anche quel giorno. Targa LE, non assicurato, modello Ciao. I fatti del mondo non ci toccavano. Rimanevano sgozzati al limite del circondario fantastico che era il nostro privilegio provinciale. Un vecchio cucco parlava con il Corriere del Mezzogiorno a mezz’asta che allo Stadio Lenin a Brežnev: «gli hanno servito un bel colpo». Stese sul telo mare, le parole fuori da noi urtavano le nostre orecchie come lo scricchiolio di litanie in una stanza colpisce un morto.
Quel giorno, in spiaggia, mi accorsi che, accanto a noi, c’era un giovane, che ti guardava. Portavo un paio di oversize agli occhi, lui non si accorse del mio fissarlo. Era di altezza proverbiale, e il fatto di guardarlo dal basso, mi dava l’impressione di essere entrata in connessione con un fauno divino che oscurava, con la sua stazza in contro luce, il sole: «potrei, se permette, disturbare la sua amica?». Una profana fascinazione verso quell’uomo mi aveva dato la presunzione che potesse scusarsi del mio, di disturbo.
All’invito dell’uomo, che voleva fare la tua conoscenza, non corrispondesti. Nemmeno con un cenno del capo: Venere al sole distesa sullo scoglio, ti sottraesti agli sguardi calando sugli occhi la paglietta, con fiore e nastro.
Nei giorni che seguirono, persuasami della tua totale, leale, indifferenza per l’uomo che tu ritenesti, già a quella prima vista al mare, insipido e sconveniente, lo inseguii come il cavaliere, alla giostra amorosa, insegue la dama cortese. Lo feci innamorare di me. Passarono pochi mesi, che mi chiese di sposarlo. Luce della mia luce, felicità delle felicità: presto sarei uscita dalla seriale noia dei miei giorni di gioventù. Avrei fatto bagagli e valigie e sarei andata via dai 30 metri quadri della casa di famiglia, dagli spazi angolari delle mie stanze affollate, dai balconi comunicanti, da zia Gloria e i suoi dépliant, dalle cataratte d’intonaco e d’incuria del quartiere della 167.
Non fu così.
Quell’uomo, piuttosto, l’avresti sposato tu. E il fatidico giorno del tuo sì, passai dal sagrato della chiesa a vedere come ti eri agghindata i capelli al fermaglio nuziale che avrebbe dovuto abbigliare, piuttosto, il mio casto velo da sposa.
Il tuo matrimonio segnò, definitivamente, la fine della nostra buona condotta. Due anni dopo, infatti, incontrai tuo marito all’autogrill sull’Adriatica e passammo tre notti al motel all’uscita autostradale di Ancona.
La perdita definitiva della mia innocenza doveva ridarti l’immagine trionfante di una purezza che le tue scelte ti avevano sottratto. Mi feci lasciare alla stazione centrale di Bologna. Ti chiamai dalla cabina telefonica, ti dissi tutto, senza emozione. Tu rimanesti imperturbabile. Durante il viaggio sull’Intercity 609, di ritorno a casa, la mente tornò al giorno che mise le radici amare al mio desiderio di vendetta.
Avevamo venticinque anni. Avrei dovuto sposarmi tre mesi dopo. Mi portasti in cima alla terrazza della mia palazzina e affermasti perentoria che avresti fatto di tutto per ostacolare la mia unione. Che quell’uomo, invece, l’avresti sposato tu. Tra le nostre parole, le tue urla e le mie preghiere, c’erano fili di metallo incrociati e grosse lenzuola stese, ingiallite dalla calura estiva, dalla dimenticanza delle donne del luogo. Il loro colore era capace di fondersi con la luce del sole come l’immagine rivelatrice di un’apoteosi.
Tornò la notte del presente. La radiolina nel vagone del treno Intercity 609 cantava sommessamente Every Breath you take dei the Police e io mi resi conto di essere diventata, finalmente, una donna.
Mi chiesi tante volte che fine avesse fatto quell’evento perturbante, nella nostra storia. Col passare del tempo ci arrendemmo a pensare che non fosse mai accaduto per davvero. Tuo marito non ti raccontò mai la verità. Rimase nel mutismo beffardo del vincente.
Lui ti amava, ed eri stata tu, la sua prima scintilla. Il suo primo disturbo. Fu così che quella mattina ti mettesti il fermaglio nuziale come la tappa vincente della tua omertosa bagarre d’amore con me. E procedesti mano nella mano con quel fauno di stazza fascinosa che si era riflesso in silhouette sui miei oversize, come venendo dal buio alla luce della mia accecata luce.
Io mi sposai poco tempo dopo quel tradimento, con un ferroviere di Rho. E ogni mattina venivo da te a bere una tazza di melissa calda. Avevi comprato dei canarini e ci piaceva parlare del loro stato di salute. In casa avevi appeso vari quadri e una grossa cornice che ci ritraeva al mare con i bikini sgambati a forme geometriche. Cucinavi bene quei piatti elaborati che lo chef stellato in tv proponeva ed eri impiegata come segretaria nello studio di una odontoiatra. Io insegnavo in una scuola serale a 40 minuti di macchina da casa.
Saremmo state destinate, presto, alla vedovanza.
Quando avevamo vent’anni pensavamo alle nostre rispettive età adulte come fossimo esperte interpellate in un think tank sulla geriatria animale. Non pensavamo che la nostra realtà sarebbe stata ben differente da come le statistiche avevano determinato. Finimmo entrambe a goderci una nuova noia riconquistata, dopo anni passati a costruire le nostre identità.
Eravamo ancora qui, sedute alla vecchia sedia a dondolo della veranda e cantavamo Viola Valentino con l’ultimo bicchiere di Cabernet Sauvignon poggiato sulle gambe scosciate in un esausto tramonto estivo.