di Anna Sidonio

Soltanto ora mi rendo conto di quanto quella vecchia fotografia abbia influenzato la mia vita.
L’avevo trovata in un vecchio baule, mentre rovistavo tra le cose di mia madre, dovendo necessariamente scegliere cosa tenere e cosa buttare, di tutto ciò che era stata la sua, la nostra vita, fino a quel momento. Mi ero imposta di fare tutto in fretta, da sola, e di non soffermarmi a crogiolarmi nei ricordi e nella nostalgia. Sarebbe stato meno doloroso, erano soltanto oggetti e io non potevo perdere tempo. Volevo rimanere il più possibile efficiente e distaccata, sapevo che c’erano tante cianfrusaglie e scartoffie inutili, è incredibile quante cose si accumulano nelle case della gente, e non avevo tempo, la casa era in affitto, andava svuotata il prima possibile.
Mio padre viveva in un’altra città, si era offerto di aiutarmi, ma non avevo la forza di coinvolgerlo. Soltanto Irina veniva ogni tanto a bussarmi alla porta, per chiedere se avessi bisogno di qualcosa. Mi sentivo a disagio con lei, aveva assistito mia madre negli ultimi cinque anni, da quando la malattia l’aveva resa invalida, tra loro due si era creata un’inevitabile intimità e confidenza da cui ero completamente esclusa. Mi ritrovavo, in quei giorni, a chiederle il permesso di aprire certi cassetti, cucinare qualcosa, o usare la biancheria di mia madre.
“Che cosa farai Irina? Posso scriverti una lettera di referenze se ne hai bisogno.”
“No, grazie. E’ arrivato momento di tornare a Romania dai miei figli. Si sta bene a Gorizia, più che in altre città dove ho lavorato ma…”
In quel periodo mi sentivo divisa in due come la mia città, deturpata da un muro che segnava il confine italo/jugoslavo da oltre mezzo secolo. Quel muro era stato abbattuto pochi anni prima, ma esisteva ancora nella mentalità della gente. Per me Gorizia era sempre stata una sola, anche se dovevo esibire i documenti alla frontiera per andare a trovare i parenti, o gli amici. Ero bilingue, avevo studiato a Gorizia, avevo fatto sport a Nova Gorica e la mia famiglia veniva da Prvacina, un paesino a otto chilometri dal confine italiano. A trent’anni non riuscivo ancora a mantenermi da sola, con una laurea in economia, avevo trovato soltanto lavori precari, con salari da fame. Dovevo andare all’estero, avevo possibilità concrete di lavoro in Germania, ma avevo paura, amavo la mia città, e la vita da espatriata non mi attirava molto. La morte di mia madre aveva dato un’ inevitabile sberla alle mie titubanze.
Avevo chiesto a Irina di guardare con me gli album di fotografie, e scegliere insieme la foto per la lapide.
“Questa è la più bella, per me, tua mamma qua somiglia tanto a tua bisnonna, come te. Eccola qua!”
Avevo visto quella foto soltanto una volta. Non sapevo quasi niente della mia bisnonna, soltanto che era stata una donna eccentrica, considerata un po’ matta, che se ne andava in giro parlando in francese e che non si era mai occupata di sua figlia. Mia nonna era stata una donna rigida, riservata, avara di abbracci e carezze. Mia madre l’aveva sempre considerata una donna egoista incapace di esprimere affetto.
“Tua mamma mi ha raccontato tante cose di tua famiglia. Questa foto si trova anche al museo di Prvacina.”
Museo? Quale museo? Ero stata in quel paese una sola volta, quattro case e una vecchia stazione, mia madre lo considerava il posto più brutto e lontano del mondo.
Provavo una sorta di fastidio e imbarazzo di fronte all’atteggiamento confidenziale che Irina aveva nei confronti della mia famiglia. Ne sapeva più lei di me? Non avevo voglia di addentrarmi nelle vecchie storie, dovevo pensare al mio futuro, alle cose pratiche, a sbarazzarmi al più presto di tutto ciò che mi legava alla mia città e alla mia famiglia.
Irina mi aveva detto che nelle vecchie storie di famiglia si scoprono un sacco di cose che ci riguardano e che avremmo potuto andare insieme a Prvacina, prima della sua partenza.
Il paese si trova in Slovenia, nella Valle del Vipacco. Durante il tragitto in macchina, il paesaggio, dal quale mi sentivo così distante, mi sembrava immobile. Irina mi indicava il verde acceso della valle, piena di vigneti e frutteti, la meraviglia di quel posto di cui sapevo pochissimo. Nella piazzetta del paese, un po’ di turisti scesi da un pullman stavano per entrare nel piccolo museo. Sulla targhetta davanti alla porta c’era scritto : V SPOMIN ALEXANDRINKAM ( in memoria delle aleksandrinke).
Alle pareti vecchie fotografie in bianco e nero di famiglie numerose ed eleganti, e, lievemente in disparte, accanto a bambini e ragazzi, delle giovani donne anche loro in abiti raffinati, di raso, di pizzo, di seta, facevano da cornice a oggetti, abiti, cartoline spedite da Alessandria d’Egitto, tra la seconda metà dell’ottocento fino ai primi del novecento. La stessa foto che avevo trovato nel vecchio baule di mia madre stava appesa sulla parete del piccolo museo con la scritta: Marija Sulic 1911 – 1982 -aleksandrinka di Prvacina. La guardai con più attenzione: stava diritta in piedi, appoggiata a uno sgabello nello studio del fotografo, i capelli raccolti sulla nuca, un vestito accollato scuro con il colletto di pizzo, bianco, e gli orecchini di perle. Non sorrideva, il viso era contratto.
“Da quanto tempo esiste questo museo?”
L’avevo chiesto a bassa voce, rivolgendomi a Irina, mi vergognavo di essere la pronipote di una donna la cui foto era esposta ai turisti e di non saperne niente.
“Dal 2005, da quando è stata fondata questa associazione.”
“…dopo la prima guerra mondiale, la migrazione femminile da queste terre che all’epoca facevano già parte del regno d’Italia, continuava a dirigersi in Egitto. Le donne erano spinte dalla miseria, che dopo la guerra si era abbattuta nella valle dell’Isonzo, dalla pressione fiscale sulla piccola proprietà terriera, dall’intolleranza delle autorità fasciste verso tutto ciò che era sloveno.”
Dunque la mia bisnonna era stata un’ “aleksandrinka”, aveva vissuto ad Alessandria d’Egitto, era là che aveva imparato il francese, nelle case dell’alta borghesia europea migrata in Egitto all’apertura del canale di Suez. A che età era partita? Quanti anni era rimasta in Egitto? Perché nella mia famiglia non se n’era mai parlato? Non avevo mai chiesto niente, mi bastava la versione dei miei nonni: era matta, disadattata, non sapeva occuparsi di sua figlia, la vergogna della famiglia, la cui storia era stata volutamente rimossa.
La somiglianza tra me e lei era così evidente che mi sembrava che tutti se ne fossero accorti e mi guardassero con curiosità.
“Si imbarcavano a Trieste, spesso insieme alle famiglie che le avevano assunte per fare le governanti, le bambinaie oppure le cuoche. Ma la maggior parte, partiva subito dopo aver partorito per andare ad allattare i figli delle ricche donne borghesi che si erano stabilite al Cairo o ad Alessandria. Allevavano i bambini altrui e vedevano crescere i propri solo nelle rare fotografie che giungevano dall’Europa.”
Irina aveva gli occhi lucidi, chi meglio di lei poteva provare empatia verso questa storia?
“Le balie erano molto richieste, specialmente le slovene del Goriziano che avevano fama di essere delle grandi lavoratrici, materne e affidabili, senza grilli per la testa, tanto che il loro latte era definito “tranquillo” e di buona qualità. In Egitto guadagnavano bene e mandavano tutti i soldi a casa, mantenendo intere famiglie, pagavano i debiti, compravano terre, costruivano case, ma la loro assenza di anni, le allontanava dagli altri membri della famiglia, soprattutto dai loro stessi bambini.”
“Conosce la storia di ognuna?”
L’avevo chiesto a bassa voce, quasi sorpresa di me stessa, per una nuova curiosità che finora non avevo mai provato. Esisteva un archivio, aveva detto la signora Vesna, curatrice del museo, dove si potevano trovare tante informazioni, interviste alle ultime aleksandrinke, video e lettere spedite da Alessandria. Marija Sulic comunque era partita a vent’anni, per fare la balia, lasciando a casa la sua unica figlia appena partorita, mia nonna, e da quel che si ricordava, era stata in Egitto per ben dieci anni.
“…Quando tornavano in patria, queste donne si trovavano avvolte da un clima di sfiducia e sospetto, nutrito da quelle stesse comunità cui avevano permesso di sbarcare il lunario. Venivano accusate di aver abbandonato i loro figli, dimenticato le tradizioni, adottato uno stile di vita lascivo e depravato. Avevano acquisito nuove abitudini, imparato diverse lingue, vissuto in ambienti molto diversi dal paese di contadini da cui provenivano. Dovevano (ri)adattarsi alla vecchia vita, che se pur abbandonata dolorosamente, non riconoscevano più…”
Irina era uscita, stava seduta sul muretto che circonda la piazza. L’avevo raggiunta, non aveva voglia di parlare, le avevo messo una braccio intorno alle spalle, guardavamo la valle sotto di noi, gli alberi del bosco stavano assumendo i caldi colori autunnali, erano nitidi, il paesaggio non era più immobile, né distante. Sentivo di farne parte.
Pensavo a Marija che partoriva a vent’anni, lasciava la bambina, si imbarcava da sola con il seno pieno di latte, destinato a un altro figlio, in un mondo nuovo e completamente sconosciuto. Marja che non ce l’aveva fatta a riprendere la sua vecchia vita, ad amare la sua bambina, e si era difesa dal giudizio e dal rifiuto della sua gente, rifugiandosi in un mondo tutto suo. Pensavo a mia nonna, che non aveva ricevuto l’amore materno sufficiente per imparare a donarlo. Pensavo a mia madre, che aveva fatto il possibile per spezzare la catena di frustrazione tramandata tanto da diventare troppo protettiva nei miei confronti. E agli uomini della mia famiglia, mio nonno, mio padre, incapaci di stare al fianco di donne così difficili. Pensavo a me che vivevo nella paura e nell’insicurezza e a Irina che voleva tornare a casa e che stava rivivendo la stessa storia.
“ ….di queste donne non si è parlato per un lunghissimo tempo, nemmeno all’interno delle mura domestiche, perché erano legate a un triste destino” si diceva, ma poi ( mi aveva detto Vesna)” la maggior parte di loro aveva vissuto bene, aveva imparato altre lingue, perfino l’arabo, si era resa indipendente, si era arricchita culturalmente, aveva guadagnato in maniera onesta.”
Irina mi disse che Marjia Sulic aveva cresciuto un bambino in Egitto di nome Joseph, figlio di genitori francesi, che gli cantava le ninne nanne in arabo, e che aveva tenuto la sua fotografia dentro il medaglione che portava sempre con sé.
“Come fai a non diventare matta se in pochi anni devi abbandonare due figli? “
Non avevo voluto sapere altro. Almeno per quel giorno. Mi dispiaceva che mia madre non avesse mai voluto raccontarmi questa storia. Ma forse l’avevo conosciuta nel momento giusto. Toccava a me ora affrontare la paura di lasciare la vecchia vita ed affrontarne una nuova. Sentivo di dover dimostrare a Marija che il suo sacrificio era servito a qualcosa. Non ero contenta di dovermene andare, avevo paura di uscire dal mio spazio faniliare, conosciuto, rassicurante, per entrare in quello dell’incertezza, ma, nello stesso tempo, mi sentivo più forte, ispirata dal coraggio della mia bisnonna. Coraggio che non era stato riconosciuto, né capito, in un’epoca in cui per le donne era quasi impossibile uscire dai percorsi prestabiliti dai padri, dai mariti, persino dalla chiesa che le considerava moralmente riprovevoli.
Ora vivo in Germania, ho trovato un buon lavoro e guadagno bene, come migliaia di altri giovani che hanno dovuto lasciare l’Italia per trovare un lavoro dignitoso. Mi sono interessata al fenomeno delle aleksandrinke e alla migrazione femminile in genere, che risulta essere ancora un fiume possente ma silenzioso di cui non si parla abbastanza. Sento di farne parte, anche se sono partita con una laurea e in condizioni migliori. Sbagliavo quando credevo di dovermi distaccare da tutto quello che era stata la mia vita fino a quel momento. Mantenere il legame con la mia città e la mia storia mi ha aiutato a trovare un centro, un punto di riferimento dentro me stessa. Irina mi scrive spesso, i suoi figli non l’hanno accolta bene all’inizio, ma sta riuscendo pian piano a riconquistare la loro fiducia.
Forse tornerò in Italia un giorno. O forse no. Ho cominciato a scavalcare il confine da piccola e probabilmente continuerò a farlo.
Molto bello. Uno squarcio su un mondo tralasciato e molto ben scritto
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