di Maria Laura Centi

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La scrittura è stata la mia ancora di salvezza da quando ero bambina, può darsi che lo sarà anche questa volta.
E’ seduto davanti alla televisione come ogni sera: lo guardo, quest’uomo che ha condiviso con me tutta la sua vita, che me l’ha dedicata e che ancora continua a farlo. Quest’uomo che ho ripagato facendogli scontare tutta l’infelicità della mia infanzia.
Cosa posso rimproverargli? Forse di non avermi lasciata, di non aver mai avuto il coraggio di guardarmi dentro fino in fondo, fino a scorgere quanto di deviato e incoerente ci fosse nella mia personalità e nelle mie condotte. Di aver preferito chiudere gli occhi e girare la testa per non vedere e illudersi di avere a fianco una donna solo un poco umorale e contraddittoria.
E’ forse questo che gli rimprovero nei miei attacchi rabbiosi: la sua assurda ingenuità, la sua infinita bontà e pazienza, che mi hanno legata a lui come a un porto sicuro ma al contempo mi hanno intrappolata.
Intrappolata e colpevole, così mi sento oggi.
Eppure quando ci siamo scelti avevo la sensazione opposta, pensavo che proprio perché tanto giovani avrei potuto vivere questo rapporto con leggerezza e con tutto il tempo e l’opportunità di cambiare, di chiuderlo, di cercare altro: di trovare il Grande Amore. La Passione.
Oddio, questo mito del Grande Amore, della passione travolgente, respirato sui “libri per giovinette” che mia madre mi dava da leggere quando ero bambina. Che danno hanno fatto questi libri! Storie sdolcinate in cui le protagoniste, fanciulle infelici e solitarie, incontravano uomini meravigliosi e protettivi che le affrancavano dal loro triste destino.
Sono cresciuta su questi romanzetti formandomi un’idea falsata e illusoria dell’amore, creandomi aspettative irrealistiche ed eccessive.
Il Grande Amore doveva innanzi tutto essere molto sofferto, ostacolato: la passione travolgente che animava i protagonisti incontrava sempre impedimenti, veniva costantemente osteggiata da qualche componente della famiglia o da forze avverse, per cui i due innamorati dovevano affrontare mille angosciose difficoltà prima di veder coronato il loro sogno.
Come dicevo, poi, la fanciulla in oggetto era invariabilmente una creatura dolce e debole, tiranneggiata dal destino, o da un padre malvagio, o da qualsivoglia altra condizione sfavorevole, dalla quale il coraggioso innamorato riusciva a riscattarla.
Mi sono spesso domandata perché mia madre, donna dura e fredda, mi desse da leggere simili romanzetti, che a giudicare dalla data di stampa erano appartenuti a sua volta a lei: forse da ragazza aveva sognato anche lei simili amori, rimanendo poi delusa e ferita dalla realtà? In tal caso, però, perché darmeli? Perché trasmettere a me simili aspettative illusorie? Probabilmente li aveva letti ma non li ricordava più e nella sua enorme distrazione me li riproponeva, ignara del danno che avrebbero procurato alla mia mente infantile. E perché a me e non a mia sorella più piccola? Lei infatti non si è ritrovata nel suo bagaglio emotivo questo fardello di romanticismo esasperato che ha invece condizionato la mia evoluzione sentimentale. Probabilmente perché io, introversa e solitaria, trascorrevo gran parte del mio tempo in casa a leggere, mentre lei viveva assai di più la realtà esterna. Rileggo i miei diari di quindicenne e ciò che mi colpisce è il bisogno che avevo di gesti teneri, affettuosi, materni: se uscivo con un ragazzo quello che mi rendeva felice e mi scaldava il cuore era il suo prendermi il viso fra le mani, era una carezza, un sorriso, una frase pronunciata con la dolcezza nella voce, non cercavo altro, non aveva importanza se mi attraesse o no, contava solo che mi mostrasse affetto.
Sei un cane senza padrone mi rimproverava mia madre, quando si accorgeva della mia infatuazione per qualcuno: sì, a tredici, quindici anni lo ero.
Poi crescendo è arrivata la passione per le figure femminili tormentate e trasgressive dei grandi romanzi classici, prima fra tutte Anna Karenina di Tolstoj, romanzo scoperto attraverso un famoso sceneggiato Rai del 1974, che seguii con estrema trepidazione, innamorandomi letteralmente sia del personaggio, sia della grande Lea Massari, che lo interpretava.
L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence fu forse il secondo romanzo che eccitò la mia fantasia, non solo per il riferimento a una relazione clandestina ma anche per la ribellione della protagonista alle convenzioni sociali dell’epoca, che la spinge a scegliere un uomo di estrazione differente, inferiore alla sua.
Poi venne Madame Bovary, forse meno amata perché troppo frivola e calcolatrice.
Passando a romanzi più moderni, ricordo che lessi tutto di Erica Jong e ovviamente il cult dell’epoca, Porci con le ali, diario sessuo-politico di due adolescenti, di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera; ma anche il romanticismo e i sentimenti puri dei romanzi di Jane Austen mi piacevano.
Più avanti scoprii Italo Svevo con le sue nevrosi, Giuseppe Berto con Il male oscuro, ma soprattutto l’immenso Luigi Pirandello con Il Fu Mattia Pascal e tutti gli altri suoi personaggi trasgressivi, insofferenti delle consuetudini, tormentati dal contrasto tra l’essere e l’apparire; la maschera, il doppio. “In me son quasi due persone”, scrive Luigi Pirandello nel 1894 alla futura moglie, “Tu già ne conosci una, l’altra, neppure la conosco bene io stesso… Io sono perpetuamente diviso tra queste due persone. Ora impera l’una, ora l’altra”.
Credo che nessuna descrizione più di questa renda l’idea della scissione che avvertivo in me fin da ragazza e che mi ha accompagnato per tutta la vita.
Questa ero io quando ho incontrato il mio compagno, a vent’anni. Incerta, confusa, contraddittoria: in me sentimentalismo, fantasie romantiche e desideri anticonformisti e trasgressivi erano mescolati in un groviglio emotivo, ma il bisogno predominante era di trovare qualcuno che mi amasse incondizionatamente, a cui potermi appoggiare con fiducia. Ho sentito che lo avevo trovato. Non mi sbagliavo.
Lui, invece, si è sbagliato: un bravo ragazzo animato dal desiderio di essere per me una specie di eroe salvatore, lui non poteva sapere quanta instabilità, incoerenza e ambivalenza di sentimenti, impulsi e desideri si celassero dietro la mia evidente fragilità e sottomissione. Non poteva conoscere l’entità del vuoto depressivo in agguato dentro me, minacciosamente pronto a emergere e a sopraffarmi come un animale feroce.
Io non potevo stare in pace, non sapevo accettare la quiete: la normalità, da me tanto anelata, significava al contempo: angoscia, morte, tristezza, noia. Avevo bisogno di emozioni forti, eccessive, al limite, per sentirmi viva.
E’ sempre stato questo il mio paradosso: il bisogno di normalità e l’incapacità assoluta di accontentarmene. Quindi, la spinta irrinunciabile alla trasgressione, alla ricerca di un di più, di un oltre a livello emotivo, di un’intensità che con lui mancava. Con lui era impossibile trasgredire, non c’era niente da trasgredire, era un ragazzo molto equilibrato.
All’inizio, quando succedeva, mi giustificavo pensando di aver tutto il diritto, alla mia giovanissima età, di fare esperienze diverse: non ci si può mettere un cappio al collo a vent’anni, e lui del resto non sembrava pretenderlo.
Ma trasgredire significava solo marginalmente infedeltà, il suo pieno significato era avere un altrove in cui vivere con eccesso. Stordirsi, ecco. Eccesso di alcol, di fumo, di cibo, di sesso, di musica, di balli, di serate, eccesso di ogni cosa. Persone fuori del comune, eccentriche, strane, problematiche, non adatte a me, come avrebbe detto mia madre, ma non poteva dirlo, perché anche lei, di me, non conosceva che la mia faccia migliore.
Così avevo cominciato a dividere la mia vita in due parti: quella normale, in cui studiavo, ero una brava figlia e avevo il ragazzo, e quella fuori di testa, in cui potevo lasciarmi andare fino in fondo e senza paura di toccarlo, il fondo, perché tanto poi c’era lui. La mia base sicura. Quella da cui spiccare il salto ed esplorare il mondo, sapendo però che puoi sempre tornare e che la ritroverai.
Dosavo le due parti con sufficiente attenzione: malgrado possa sembrare una cosa studiata a tavolino, avveniva invece con grande spontaneità. E’ solo ad analizzarla tanti anni dopo che sembra cinica, oltre che folle, a quei tempi accadeva e basta.
Lui era l’Amore-Affetto, era Mamma-e-Papà, era il calore che non avevo avuto. Venivo da una famiglia travolta da pesanti conflitti, rancorosa e infelice: una coppia di genitori così assorbiti dal loro quotidiano gioco al massacro da non potersi accorgere della sofferenza di noi figlie. Avevo amato molto mio padre nell’infanzia, uomo sensibile e riservato come me, ma purtroppo chiuso nella sua sofferenza. Avevo disperatamente amato mia madre e cercato la sua attenzione, ma era sempre stata così poco accessibile, rigida e formale, al riparo dai sentimenti e svilente nei miei confronti.
Nel mio compagno avevo trovato quello che mi era sempre mancato: il sentirmi accolta e degna d’amore. Era diventato la mia valvola di sicurezza, la mia garanzia di equilibrio, l’ago della bilancia regolato nel mezzo, al centro, perfettamente al centro.
Non poteva essere però il Grande Amore passionale, quello doveva essere tormentato, proibito, pericoloso, nascosto agli occhi del mondo e, naturalmente, ai suoi. Anche se, lui ci vedeva benissimo, solo che preferiva negarlo anche a se stesso.
Si può andare avanti così tutta la vita? Pare di sì. Che poi, se vogliamo, non c’è una colpevole, io, e una vittima, lui, perché il gioco è sempre di coppia e lui è il mio complice. Una dipendenza reciproca, una debolezza di entrambi, un incastro di bisogni diversi ma complementari. Non ci siamo scelti a caso, e se io l’ho scelto per colmare i miei vuoti e per sentirmi protetta, il suo sapermi sostenere e guidare gli ha rimandato come in uno specchio un’immagine positiva di sé, di forza e sicurezza.
Lo riconosco, ancora oggi lui è per me l’amico migliore, il mio confidente, l’unico che di me conosce tutto, anche quello che non vuole sapere.
E’ stato proprio il perpetuarsi negli anni di questo non detto, questo suo ostinato far finta, che mi ha spinta stasera a rompere il patto, questo tacito patto del “va tutto bene”. Ho scelto il 31 dicembre a mezzanotte meno un quarto per dirgli che rivoglio la mia libertà; che dobbiamo prendere atto di quel che funziona, tra noi, e di quel che manca e che è sempre stato l’aspetto più carente del nostro legame, l’intimità fisica, che ognuno di noi due ha il diritto di cercarsi fuori dalla coppia, senza sotterfugi, senza dover inventare ogni volta scuse improbabili.
Una proposta di liberazione sessuale di cui poter godere entrambi.
Era da parecchio tempo che mi ripromettevo di parlargli, come si dice, a cuore aperto, con sincerità, mi sembrava un atto di onestà da parte mia, finalmente.
Mi sembrava anche che il nostro rapporto avesse un valore e una solidità tali da poter sostenere una verità ai miei occhi tanto evidente.
E’ davvero così assurdo proporre una cosa del genere alla nostra età non più giovane, dopo una convivenza lunga una vita? E’ così assurdo aver voglia di chiarezza, di scoprire le carte?
Sì, è assurdo, non si può, ho sbagliato: non si può tradire il patto implicito su cui un legame si fonda e si regge da sempre. Non si può, a meno di non far saltare tutto. E nessuno di noi due aveva intenzione di farlo.
Ho letto nei suoi occhi lo smarrimento. Poi è scoccata la mezzanotte, ha riempito i calici e ha alzato il suo verso di me per brindare, i cristalli hanno tintinnato, mi ha sorriso.
Mi sono domandata se avessi realmente parlato.
La mattina dopo mi ha portato il caffè a letto, come sempre.