di Anna Sidonio

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Il nuovo direttore era arrivato un lunedì mattina, prima di noi, aveva già le chiavi dell’ufficio, stava seduto dietro la scrivania. Si presentò senza sorridere, poche parole, sembrò gentile, un tipo riservato, più o meno la nostra età, capelli grigi, giacca grigia, pantaloni neri, occhiali spessi. Potevamo dargli del tu. Si capiva che non era contento del trasferimento, era stato mandato da noi per risollevare le sorti dell’agenzia. Le cose andavano male, il budget non era stato raggiunto, il personale non motivato a sufficienza per raggiungere gli standard prefissati. Provai per lui un’antipatia immediata, forse alimentata dal pregiudizio verso qualcuno mandato a “metterci in riga.”
Non volli dargli molto peso, mi imposi di essere disponibile. Disse: ”Dovrò fare dei cambiamenti”.
I primi giorni non cambiò niente, lavoravamo come sempre, chiacchieravamo tra di noi mentre lui ci osservava in silenzio, limitandosi a dire grazie, prego, dove sono le pratiche, i registri, i numeri di telefono. Dopo pochi giorni cambiò la disposizione dei mobili, disse che voleva creare un ambiente più spazioso. Lo aiutammo con poco entusiasmo. Buttò via tutte le “cianfrusaglie inutili,” tipo quadretti, fotografie e cartoline appese. Fece portar via la macchina del caffè. Disse che non serviva perché lui il caffè non lo beveva e per noi era uno spreco di tempo. Ci portammo il caffè nei thermos.
Ero arrabbiata.
Le mie colleghe mi dicevano: “dai, non fasciamoci la testa, ci conviene collaborare, per il quieto vivere.”
Io ho sempre odiato il “quieto vivere”. Mi ricorda la polvere sotto il tappeto, il fondotinta sopra i brufoli. Lo capisco, ma mi mette a disagio. Dopo la disposizione dei mobili ci cambiò di posto, come a scuola, per “evitare distrazioni”. Si rivolgeva a ognuna di noi con modi freddi ma educati, tono pacato, senza mai guardarci in faccia. Quando Clara disse che per lei era importante stare vicino alla finestra, perché non ci vedeva bene, le consigliò gentilmente di cambiare occhiali.
A ogni timida rimostranza ci ricordava la ragione per cui lui era stato trasferito e il fallimento del nostro metodo di lavoro.
Un giorno ci annunciò una riunione pomeridiana nella sede centrale, senza preavviso, al cospetto del direttore di filiale e altri “vice-capi”. Alle nostre proteste replicò che si trattava di un corso di aggiornamento obbligatorio e che c’era poco da discutere.
Non eravamo ragazzine, avevamo figli, genitori anziani, impegni difficili da annullare da un momento all’altro. Disse: ”I problemi familiari devono rimanere fuori dall’ufficio”. Alla riunione elencò tutti i nostri difetti lavorativi, spiegando le sue intenzioni per porvi rimedio. Davanti ai suoi superiori sorrideva nervosamente. Fu chiesto a ognuna di noi di spiegare che cosa avremmo fatto per migliorare le nostre “prestazioni individuali”. Quando dissi che stavo già facendo del mio meglio, mi fulminò con lo sguardo. Nei giorni seguenti, in ufficio, il suo atteggiamento nei miei confronti peggiorò moltissimo. Appena arrivata di mattina, trovavo sulla mia postazione le pratiche lavorate il giorno prima con gli errori sottolineati e dei bigliettini con scritto “Rifare”. Se gli chiedevo spiegazioni mi rispondeva: “Come non lo sai? Da quanti anni lavori? Venti? Venticinque? Non sei in grado neanche di capire i tuoi sbagli?”.
La mia gastrite peggiorava di giorno in giorno e mi era aumentata la sudorazione. Ero in piena menopausa e le vampate di calore mi annientavano. Spesso dovevo alzarmi e andare in bagno, e quando uscivo, lui si raccomandava che avessi lasciato pulito e spento la luce, dal momento che non ero io a pagarla. Cominciò a contare le volte che andavo in bagno.
Un giorno Clara portò delle paste, per festeggiare il suo compleanno. Ovviamente aprimmo il pacchetto a fine orario, invitandolo a unirsi a noi. Era infastidito, partecipò per educazione, ma era a disagio, non sapeva comportarsi con noi in un contesto extralavorativo. Non mangiò niente, disse auguri e fece il brindisi, ma senza bere. Si raccomandò che lasciassimo tutto pulito, le briciole sulla scrivania lo disgustavano.
Quando ce ne andavamo, ben oltre l’orario canonico, lui restava alla scrivania, concentratissimo, tanto che nemmeno ci salutava, come a farci capire che non poteva perdere neanche un secondo. In ufficio c’era un ordine maniacale, ma il budget rimaneva irraggiungibile. Le nostre prestazioni, nonostante il taglio dei minuti di “distrazione”, non miglioravano. Ogni giorno ci lasciava sulla scrivania le mail di servizio che dimostravano con dati e percentuali i nostri risultati negativi. Ci trattava tutte con un leggero disprezzo mascherato da buona educazione. Per essere donne, non eravamo affatto ordinate, diceva, e ci esortava a mettere ordine negli armadi e negli scaffali.
Un giorno mi disse: ”Potresti bagnare le piante, così fai qualcosa di utile”.
Lo feci, per il “quieto vivere” ma un po’ d’acqua fuoriscì dai sottovasi, bagnando il pavimento. Mi disse: “Scusami, ho sbagliato a fartelo fare, non immaginavo che non eri in grado di bagnare due piante”.
Dissi alle mie colleghe che avremmo potuto denunciarlo per mobbing, ma non se la sentivano, dissero che io me la prendevo troppo, che in fondo lui era bravo e competente, e che mettersi contro di lui era pericoloso. Immaginavano lettere di trasferimento, sanzioni disciplinari… ci conveniva stare buone e sopportare. I nostri ritmi quotidiani sarebbero stati sconvolti, tutto era programmato in funzione delle distanze: posto di lavoro, vicinanza da casa, scuola dei figli, orari da far combaciare eccetera. Mi esortavano a fregarmene e a pensare che lui era soltanto un cretino.
Io non potevo fare la denuncia da sola, avevo bisogno di testimoni. Così si rovinarono anche i rapporti tra di noi, che andavamo d’accordo da vent’anni.
Cominciai a pensare di essere sbagliata, che tutta la rabbia che provavo era sbagliata, che avevano ragione loro, o forse lui, che non valevo niente, che non ero capace di fregarmene, che volevo reagire, ma non ero all’altezza. Cominciai ad avere forti attacchi d’ansia e a non dormire la notte. Trattavo male i miei famigliari. In ufficio mi tremavano le mani, avevo paura di sbagliare anche le pratiche più semplici. I bigliettini che annotavano i miei errori erano presenti sul mio tavolo ogni giorno. Li trovavo anche nell’armadietto dove mettevo il cappotto, ripulito da tutti gli adesivi e le cose personali. Cercavo la complicità delle mie colleghe ma loro mi ignoravano, non volevano farsi influenzare dal mio cattivo umore. Un giorno mi diede una mail in cui mi “invitavano a presentarmi in sede centrale, dopo l’orario di lavoro per comunicazioni che mi riguardavano.” Gli dissi: “Ma perché? Quali comunicazioni? Non capisco…e perché ci devo andare io?”.
Disse: ”Sei quella che ne ha più bisogno. E comunque non devi capire. Devi ubbidire”.
Non trattava le mie colleghe tanto diversamente da me, ma loro non se la prendevano, dicevano che la vita cominciava fuori dall’ufficio. Io non ci riuscivo, mi sentivo perennemente arrabbiata e depressa. Sono sempre stata una persona educata, che pensa prima di parlare, che rimugina molto, troppo, ma che allo stesso tempo non riesce a tollerare la prepotenza, il maschilismo, la prevaricazione. La comunicazione di quel pomeriggio fu il solito “lavaggio del cervello.” Bisognava fare di più, produrre di più, sentirsi parte fondamentale dell’azienda, e fieri di dare il massimo. Il nostro valore dipendeva dai risultati raggiunti e dagli obiettivi conquistati. Li chiamavano corsi di aggiornamento. Io li chiamavo “manipolazioni psicologiche a scopo produttivo.”
Ero stanca, mi veniva sempre da piangere e mi sentivo in colpa e inadeguata. Aumentai gli ansiolitici e gli antedepressivi. Mio marito continuava a dirmi: ”Devi staccare, non puoi portarti il lavoro a casa”.
Andare in ufficio era un inferno quotidiano. L’atmosfera era pesante, non scherzavamo più tra di noi. Cercavo di non chiedere mai niente al direttore, ma ne avevo bisogno, certe cose le sapeva risolvere solo lui. A volte me le risolveva facendomi notare la mia inferiorità, a volte mi diceva: ”Leggiti la circolare numero…e prova a capire, ma non metterci tutta la mattina”.
Andai avanti così per due anni. Di mattina non lo salutavo neanche, cercavo di risolvermi i problemi da sola, ma facevo una fatica abnorme, perché avevo i nervi a pezzi.
Un giorno che gli presentai il mio piano ferie mi disse: “Escluso. Cancella tutto e rifai. Questi sono i giorni di massimo lavoro, abbiamo un sacco di scadenze, potrei anche darteli, ma non sai lavorare, credi di meritarteli?”.
Dissi: “Ma se non so lavorare, cosa cambia se sono presente o meno in quei giorni?”.
Non mi rispose, ignorandomi.
Tornai alla mia postazione e feci un lungo sospiro. Chiusi gli occhi. Mi pareva di esplodere. Le mie colleghe tenevano la testa bassa. Anche a loro aveva già negato permessi e giorni di ferie ma se qualcuna restava oltre l’orario o dimostrava un impegno da superdonna, glieli concedeva. Mi rimisi al lavoro ma dopo un po’ mi si annebbiò la vista, mi vennero i crampi allo stomaco e i sudori freddi.
“Che succede? Sei bianca come uno straccio. Dovresti startene un po’ a casa, al diavolo il lavoro!”, mi disse Clara, a bassa voce.
La nausea mi travolse e mi precipitai in bagno ma il direttore era in piedi davanti alla porta, con un documento in mano. Non feci in tempo ad arrivare alla tazza del water e gli vomitai sulle sue scarpe nere e lucide. Non era granchè, solo caffelatte con qualche pezzo di panettone ma la sua espressione di sorpresa e disgusto aumentò la mia nausea e con un altro conato buttai fuori tutto il rimanente, questa volta sulla sua scrivania. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, pensai che mi avrebbe uccisa,
“Sei impazzita?” disse, cercando di ripulirsi con i fogli della stampante.
Mi prese un attacco di risata isterica, non riuscivo a trattenermi, mentre le mie colleghe preoccupate, buttavano fogli di giornale a terra e mi portavano acqua fresca e fazzolettini bagnati sulla fronte.
“Sei solo uno stupido burocrate maschilista. Io non so lavorare, sarà anche vero, ma tu di rapporti umani, non capisci un cazzo”, dissi.
Gli lasciai il mio vomito sulle scarpe, e me ne andai a casa, ci restai per un mese.
Feci domanda di trasferimento e non lo vidi più.
Un giorno lo incontrai per caso, con la moglie, in un centro commerciale.
Stavo dietro di loro col carrello della spesa, a debita distanza e involontariamente sentii la conversazione. Lui disse : ”Dopo la spesa potremmo andare nel negozio accanto, a vedere le macchine fotografiche, giusto così…un’occhiatina”.
“Non ne vale la pena”, disse lei, “le tue foto sono mediocri, ti basta quella che hai.”
Lui mise due bottiglie di passata di pomodoro nel carrello e non replicò.
Pensai a quei due anni della mia vita sprecati a lottare con me stessa.
Comprai fragole e panna, una bella scorta di cioccolato fondente e una bottiglia di Prosecco.