di Silvia Trombetta

La cicatrice è ormai sparita. Il mio corpo ha rimarginato del tutto la ferita. Quella esterna. Anche la mia anima ha impastato il dolore con il resto della vita, con le gioie che sono seguite, e se la mia vita fosse un dipinto, di quel dolore ci sarebbe solo una tenue ombra nera in un angolo.
Ma sotto la pelle, dentro il mio corpo, quel pezzo manca. L’hanno tagliato e manca. E in quel quadro quel figlio manca. Nella mia vita non c’è mai stato. Nel mio corpo solo per poche settimane. Per di più nel posto sbagliato. Col rischio di causare lui la mia morte, anziché io la sua vita. Per questo in fretta e furia hanno tagliato lui (o lei?) e la mia tuba.
Lo hanno fatto dopo avermi frugata, palpata con ogni strumento. Dopo avermi detto è solo un aborto, cosa vuoi che sia, succede a tutte. Dopo avermi lasciata con un’emorragia che non terminava e un dolore che cresceva. E alla fine, dopo aver scrutato nel mio utero in tanti – professori e studenti -, io lì con le gambe larghe, il dolore nella pancia, le loro dita nella vagina, le lacrime di un figlio che si era infilato nel posto sbagliato. Chissà perché il mio corpo non aveva saputo guidarlo nel posto giusto. Era colpa mia? Perché il mio corpo aveva fallito? Perché io avevo fallito?
Me lo chiedevo nel mio letto d’ospedale, prima e dopo il taglio, accanto alle donne – loro sì – che partorivano. Ci tenevano insieme, nella stessa stanza, un letto accanto all’altro, io che ero rotta, sbagliata, e loro che erano giuste, sane, floride e capaci di fare figli. Ci sarei mai riuscita? Perché mi sentivo così sbagliata? Non è una cosa così facile fare un figlio? Non ci hanno raccontato che siamo nate per quello? E allora perché il mio corpo non è stato capace di fare quello per cui è fatto? E io che cosa sono, ora che non sono stata neanche capace di fare un figlio, di farlo crescere dentro di me e generarlo?
Fu con quel taglio e queste ferite che uscii da lì. Vuota. Impotente. Ferma. Bloccata ad una me che non volevo. Incapace di generare. Cosa ero allora?
Fu per non saper rispondere a questa domanda che mi intestardii nella ricerca di un figlio (un altro). Se non sapevo generare, se non ero madre, chi ero? Il vuoto di questa risposta fu il buco nero in cui si persero i miei tentativi. Costrinsi il mio corpo a essere penetrato per generare e non per amare e per godere, costrinsi il mio corpo a rispondere ai calendari, a essere esaminato, smontato, scandagliato. Di nuovo. E fu ferita, fu dolore, fu ribrezzo.
Fu mentre costringevo il mio corpo a non essere corpo, ma macchina, macchina per generare, che arrivò la risposta. Io sono Io. Sono tutta. Tutta me. Solo me. E nient’altro. Non sono una madre, non sono un figlio, non sono una moglie. Sono Io. Intera. E se non so generare un figlio, so generare universi interi, e vivrò per generare. Forse non figli, ma vita. Ecco il mio potere. Generare e dare vita. Non fare figli.
E allora ho smesso. Ho smesso di costringere il mio corpo. Ho ricominciato a respirare, a progettare, a guardare, ad amare e a godere. E il mio corpo è tornato libero, è diventato libero. E allora ha generato. La mia anima ha generato me stessa e il mio corpo ha generato mio figlio. Siamo nati insieme io e lui.